La madre in affitto si ribella alla logica del figlio perfetto - Kelley ha deciso di far nascere una figlia malata rifiutata dai “committenti ” - 7 marzo 2013 - http://www.ilfoglio.it
Nel mezzo del dramma l’avvocato Douglas Fishman ha scritto a Crystal Kelley una lettera per mettere in chiaro le cose: “Lei è obbligata a interrompere immediatamente la gravidanza. Ha già sprecato troppo tempo”. Undici giorni più tardi Kelley sarebbe entrata nella ventiquattresima settimana, limite oltre il quale lo stato del Connecticut non permette di avere un aborto, quindi avrebbe dovuto affrontare l’effetto collaterale di una gestazione andata storta, la nascita. La bambina aveva il labbro leporino e la palatoschisi, una cisti nel cervello e varie disfunzioni cardiache. Dalle ecografie i medici riuscivano a malapena a vedere lo stomaco e la milza. Per i genitori di S. – così viene identificata la bambina nel racconto di Kelley – le disfunzioni scoperte osservando quel grembo con i raggi erano troppo gravi per risultare in una vita degna di essere vissuta. Gli esami preludevano a un’esistenza intrisa di sofferenze, bisognosa di cure e probabilmente molto breve; non era per questo che si erano rivolti a un’agenzia che mette in contatto le famiglie che vogliono un figlio con ragazze che mettono il proprio utero al servizio degli altrui desideri in cambio di denaro. Kelley sapeva esattamente come funziona la dinamica del mercato della maternità: la domanda insoddisfatta di figli incontra l’offerta profittevole di fertilità. L’inseminazione artificiale è il mezzo tecnico, la dotazione genetica garantisce che la madre in prestito sia soltanto il mezzo biologico. Possono anche intervenire rapporti emotivi fra i genitori e la ragazza che porta in grembo il bambino, ma le parti in causa sanno che non è quello il punto.
Kelley, ragazza madre, aveva già fatto la madre “surrogata” in passato e ogni volta che riceveva la lettera dell’affitto chiamava l’agenzia per sapere se qualche coppia poteva essere interessata alle sue prestazioni. 22 mila dollari era il compenso quantificabile, distribuire la gioia di diventare genitori quello inestimabile. Aveva anche avuto due aborti spontanei, sperimentando tutti gli stadi, anche quelli drammatici, della maternità. Si è rivolta a lei una coppia che non poteva avere il quarto figlio e aveva già sperimentato, con scarsi risultati, la fecondazione assistita. Ma in laboratorio avevano ancora un paio di embrioni congelati. Al primo incontro con la coppia Kelley accetta di portare un figlio per conto terzi e le operazioni vanno avanti senza intoppi fino al giorno in cui un’ecografia dice che la bambina avrà soltanto il 25 per cento delle probabilità di condurre una vita “normale”. I genitori ritrattano. Il figlio che verrà non soddisfa le condizioni contrattuali su cui fa leva l’avvocato Fishman. I medici scrivono in un rapporto: “Visti i risultati degli esami, i genitori credono che gli interventi che saranno necessari per far fronte ai problemi di salute della bambina sono eccessivi per un neonato, e l’interruzione di gravidanza è un’opzione più umana”. Kelley però non vuole abortire. Non importa di chi è il figlio che porta in seno e quali sono le sue condizioni fisiche. Nel suo blog ha scritto: “Erano entrambi chiaramente arrabbiati. Dicevano che non volevano mettere al mondo un figlio soltanto per farlo soffrire. Che io dovevo sforzarmi di essere ‘come Dio’ e di avere pietà. Gli ho risposto che mi avevano scelto per portare e proteggere loro figlio, e lo avrei fatto. Ho detto che non era assegnata a loro la parte di Dio”.
Un prezzo per il parto, uno per l’aborto
E’ a questo punto che parte la battaglia legale. L’agenzia delle madri surrogate manda i suoi messi a convincere Kelley: le spiegano che un figlio disabile le rovinerà la vita, da tutti punti di vista, e per rafforzare il tentativo la famiglia mette sul piatto 10 mila dollari. Lei rifiuta. Poi guarda il suo conto in banca e per un momento si insinua la tentazione di alzare il prezzo e cedere. Ma subito Kelley torna sui suoi passi e la decisione di abortire o dare alla luce un figlio è soltanto sua, e lei ha già scelto. Guida per 700 miglia fino in Michigan, dove la madre legale è quella che partorisce il figlio, non la titolare del patrimonio genetico. Di tenere con sé S. però non se la sente. Non ha le forze, le capacità, la disponibilità economica, ma questa Juno è certa che qualcuno là fuori sarà in grado di volerle bene e di rispondere ai suoi particolari bisogni. Ora S. ha nove mesi, una situazione clinica fragile e una famiglia che la ama senza condizioni.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Mattia Ferraresi – @mattiaferraresi
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