LA NUOVA RUPE TARPEA -“Uccidere
un bimbo non è reato”. I filosofi blasonati che giustificano l’infanticidio.
Intanto in Europa si eliminano i neonati disabili - di Giulio Meotti - IL
FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 23 MARZO 2013
Nel 1977 l’allora chirurgo generale
degli Stati Uniti, C. Everett Koop, scomparso tre settimane fa e salutato dalla
stampa liberal come il grande pioniere della sanità americana, tenne un
discorso che fece scalpore al parterre dell’American Academy of Pediatrics,
intitolato “The slide to Auschwitz”. “L’infanticidio è messo in pratica e sono
preoccupato perché non c’è protesta”, disse il medico-ministro. “Sono
preoccupato perché quando i primi 273 mila tedeschi, anziani, disabili e
ritardati furono uccisi nelle camere a gas non ci fu protesta neppure allora da
parte della professione medica e non fummo molto lontani da Auschwitz”. Sono
trascorsi trentasei anni da quello storico j’accuse di Koop e l’infanticidio,
l’eutanasia dei bambini, o come viene chiamato da altri più eufemisticamente
“aborto post nascita”, è diventato mainstream.
Il “rottweiler di Darwin”, il
professor Richard Dawkins, l’autore di “The God Delusion”, ha appena dichiarato
che i feti, i bambini non nati, sono “meno umani” di un maiale adulto.
“Riguardo a cosa sia ‘umano’ e alla moralità dell’aborto, ogni feto è meno
umano di un maiale adulto”. Dawkins ha così giustificato l’uccisione di neonati
disabili: “Moralmente non vedo obiezione, sarei a favore dell’infanticidio”. Della
stesso avviso il professor Steven Pinker, docente ad Harvard, appena arrivato
in Italia col suo libro “Il declino della violenza” (Rizzoli), per il quale i
nuovi nati non sono ancora “persone”.
Le nuove teorie sull’infanticidio,
moderna versione della Rupe Tarpea, si formano nel Centro per la bioetica
fondato da Peter Singer presso la Monash University di Melbourne. “Se
paragoniamo un nuovo nato deficiente a un cane o a un maiale, scopriremo che il
non umano ha capacità superiori”, ha scandito il professor Singer, che per
questo è stato soprannominato “il filosofo della soluzione finale”. “Pensare che
la vita di un neonato abbia uno speciale valore perché è piccolo e grazioso è come
pensare che un cucciolo di foca, con la sua soffice pelliccia bianca e i suoi
occhioni tondi, meriti più protezione di un gorilla”. Nel 1997 Singer fu
invitato a tenere una conferenza sull’eutanasia in Svezia. Il cacciatore di
nazisti Simon Wiesenthal si rifiutò d’incontrarlo perché, disse, “è inaccettabile
un professore di morale che giustifica l’uccisione di nuovi nati handicappati”.
George Pell, arcivescovo di Melbourne, dove Singer insegnava prima di atterrare
nel celebre campus di Princeton nel Massachusetts, gli ha dichiarato guerra,
chiamandolo “il ministro della propaganda di Erode”. Per il New York Times la sua
popolarità a Princeton è simile a quella di Albert Einstein negli anni Quaranta
all’Institute for Advanced Studies. Il New Yorker, in una celebre
gigantografia, lo ha definito il filosofo più influente al mondo.
E’ vero, perché non c’è teoria
filosofica che abbia scatenato più clamore di quella di Singer negli ultimi
vent’anni. La sua assunzione da parte dell’Università di Princeton, la più
conservatrice tra le otto prestigiose università della Ivy League, ha scatenato
un chiasso mediatico non inferiore al mancato ingaggio del teorico dell’amore
libero, Bertrand Russell. Il Wall Street Journal ha paragonato l’assunzione di
Singer a quella del nazista Martin Bormann, accusando l’ateneo di aver “gettato
in mare la concezione della dignità umana che da due millenni caratterizza la
civiltà occidentale”. Vegetariano, evoluzionista di sinistra, militante
socialdemocratico, paladino degli animalisti che devolve parte del suo
stipendio in beneficenza, Singer ha fondato le teorie sull’eutanasia infantile
in vigore oggi in Europa: “Ci sono molti esseri che sono consapevoli e capaci
di provare piacere e dolore ma che non sono razionali e quindi non sono delle
persone”, ha scritto il famoso bioeticista. “Molti animali non-umani rientrano
in questa categoria, alcuni infanti e altri deficienti mentali. Dato che gli
infanti sono indifesi e moralmente incapaci di commettere un crimine, chi li
uccide non ha le scusanti spesso concesse per l’uccisione di un adulto. Niente
di tutto ciò mostra comunque che l’uccisione di un bambino dovrebbe ritenersi
grave quanto quella di un adulto”. E’ nata anche una Princeton Students Against
Infanticide.
Da anni stanno uscendo saggi
importanti di bioeticisti e filosofi che giustificano l’eutanasia dei nuovi
nati. Jeff McMahan ha scritto ad esempio in “The ethics of killing” (Oxford
University Press) che “l’infanticidio è giustificabile” in caso di “gravi
disabilità mentali” del bambino. “La ragione per cui non ci sono differenze
intrinseche fra neonati e feti è che un feto potrebbe essere un nuovo nato
prematuramente”. Quindi l’aborto e l’infanticidio hanno la stessa valenza
morale.
In Inghilterra il professore del King’s College
Jonathan Glover ha giustificato l’infanticidio sulla base del fatto che “va
considerata l’autonomia della persona la cui vita è in gioco, se valga la pena
di essere vissuta”. La filosofa utilitarista Helga Kuhse ha articolato la
legittimità dell’uccisione degli handicappati in “Should the Baby Live? The
Problem of Handicapped Infants”, un libro che ha scritto insieme a Singer. Sulla
rivista Journal of Applied Philosophy, con il saggio “Consciousness and the
Moral Permissibility of Infanticide”, gli studiosi Nicole Hassoun e Uriah
Kriegel hanno sostenuto che “non è permesso uccidere una creatura soltanto
quando questa è cosciente; è ragionevole pensare che ci sono casi in cui i
neonati non sono coscienti; quindi è ragionevole pensare che sia lecito
uccidere alcuni nuovi nati”.
Hugo T. Engelhardt jr, autore del
“Manuale di bioetica”, non esclude la possibilità dell’infanticidio osservando
che “il dovere di preservare la vita di un neonato generalmente viene meno con
il diminuire delle possibilità di successo nonché della qualità e della
quantità della vita, e con l’aumentare dei costi del conseguimento di tale
qualità”. Il noto bioeticista ha coniato la definizione di “straniero morale”
per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali,
dementi, comatosi, in stato vegetativo, ecc.) che non avrebbero titolo a essere
considerati “persone” perché privi della capacità di esprimere biasimo o lode e
quindi, appunto, estranei alla comunità sociale. I due premi Nobel che hanno
decifrato la struttura del Dna, Francis Crick e James Watson, hanno dichiarato
che dovrebbe essere istituito un periodo di due giorni di osservazione dopo la
nascita in cui i bambini non sono ancora pienamente “persone” e quindi soggette
a possibile eutanasia. Una delle università mediche reali della Gran Bretagna,
il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, ha invitato la comunità
medica a studiare la possibilità di consentire l’eutanasia di neonati
seriamente disabili. L’università ha sostenuto che “l’eutanasia attiva” dovrebbe
essere considerata per il bene generale delle famiglie, per risparmiare ai
genitori i turbamenti emotivi e le difficoltà finanziarie di crescere i bambini
più gravemente ammalati. “Un bambino molto disabile può significare una
famiglia disabile”. Joy Delhanty, docente di Genetica all’Università di Londra
afferma: “Penso che sia immorale sforzarsi di mantenere in vita bambini che
soffriranno per molti mesi o anni a causa di affezioni molto gravi”.
Richard Nicholson, redattore del
Bulletin of Medical Ethics, che ha ammesso di aver accelerato la morte di due
bambini neonati gravemente disabili negli anni Settanta, quando era un medico
neo laureato, afferma: “Non mi opporrei a questa pratica”, riferendosi anche
“al dolore, all’afflizione e al disagio” dei bambini gravemente disabili.
Scandalo hanno generato le tesi del
professor John Harris, perché è un membro della commissione governativa di
Genetica umana e professore di Bioetica all’Università di Manchester: “E’
possibile sopprimere in caso di gravi anomalie fetali finché è un feto ma non
possiamo uccidere un neonato. Che cosa pensa la gente che cambi nel passaggio
lungo il canale vaginale da rendere giusto uccidere un feto a un’estremità del
canale ma non all’altra?”.
In Europa l’infanticidio sta diventando
una prassi. Secondo uno studio realizzato da Veerle Provoost, una ricercatrice
dell’Università di Gand, la metà dei bambini colpiti da malattie gravissime e
deceduti in Belgio entro il primo anno di vita sono stati aiutati o lasciati
morire, ricorrendo, quindi, a una forma non dichiarata di eutanasia e non
prevista per i minorenni. Per questo oggi il Belgio sta studiando come estendere
l’eutanasia anche ai bambini. Lo studio di Provoost calcola che per 150 bambini
è risultato che la morte è dovuta alla decisione “di mettere fine alla vita” del
piccolo paziente, adottata mediante la sospensione del trattamento capace di
prolungarne l’esistenza, la somministrazione di oppiacei e l’impiego di
prodotti tesi esplicitamente a provocare la morte del bambino. Nel 30 per cento
dei casi non si trattava neppure di malati terminali, ma di bambini che non
avrebbero potuto avere “una qualità della vita accettabile”. In questi casi “è
insensato prolungare la loro esistenza a ogni costo”, ha dichiarato José Ramet,
primario all’ospedale universitario di Anversa e presidente della società belga
di pediatria.
Il Liverpool Care Pathway (Lcp) è il
protocollo seguito negli ospedali britannici che indica come i medici debbano
accompagnare alla morte i malati in fin di vita. Il protocollo prevede
l’interruzione di alimentazione e idratazione. Alcune settimane fa, sulle
pagine dell’autorevole British Medical Journal è stato rivelato che il
protocollo è applicato anche ai bambini con disabilità. Un medico inglese che
vuole rimanere anonimo ha raccontato la vicenda di un bambino nato con una
lista molto lunga di anomalie congenite. I genitori del neonato malformato
erano d’accordo sull’applicazione del Lcp e speravano che morisse in fretta.
“Si auguravano che gli venisse una polmonite e che non soffrisse. Ma nella mia
esperienza di medico ho visto che non si può sapere quanto sopravviveranno i
bambini nati con malformazioni”.
Un anno fa è apparso sul prestigioso Journal
of Medical Ethics il saggio di due studiosi italiani che fanno ricerca in
Australia, Alberto Giubilini e Francesca Minerva: “Se pensiamo che l’aborto è
moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che
conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle
stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post nascita”.
Ovvero: al pari del feto, anche il bambino già nato non ha lo status di “persona”,
pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui
è permesso l’aborto, anche quando il neonato non ha alcuna disabilità ma ad esempio
costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia. Le loro
idee sono state sdoganate anche in Italia: Maurizio Mori, direttore del master
di Bioetica all’Università di Torino, in gennaio li ha invitati a parlare.
“Alle idee di Singer di trent’anni fa, quando non eravamo nemmeno nati, noi
abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia
disabile per poterlo uccidere”. L’infanticidio dovrebbe essere consentito per
le stesse ragioni per cui è permesso l’aborto. “L’essere ‘umano’ non è di per
sé ragione sufficiente per attribuire a qualcuno il diritto alla vita”,
affermano i due studiosi. “Sia il feto sia il neonato sono certamente esseri
umani ma né l’uno né l’altro sono ‘persone’ nel senso di ‘soggetto di un
diritto morale alla vita”’.
Il pioniere dell’infanticidio è il
dottor Eduard Verhagen. Sono tre le categorie di neonati secondo cui per questo
pediatra olandese si può porre fine alla loro vita. La prima: “I bambini
destinati a morire in breve tempo nonostante il sostegno ininterrotto di
tecnologia medica invasiva. Questi sono bambini con una patologia di fondo, quale
può essere l’assenza di reni, polmoni non sufficientemente sviluppati,
eccessiva prematurità (come per i neonati di meno di 22 settimane) e per i
quali la morte è un fatto inevitabile”. Secondo gruppo: “Pazienti che
necessitano di un trattamento intensivo e che, dopo questo periodo di cure, potrebbero
anche sopravvivere, ma le cui prospettive di vita, dal punto di vista della qualità
dell’esistenza, sono davvero miserevoli”. Differenti tipologie di bambini
possono rientrare in questa categoria: i bambini con gravi malformazioni
cerebrali (come nel caso della oloprosencefalia) o che hanno riportato gravi
danni neurologici (come nel caso di asfissia o di gravi emorragie cerebrali).
“I bambini di questa categoria si prevede che muoiano non appena il trattamento
delle cure intensive venga interrotto”. Terzo gruppo: bambini “che non
dipendono da un trattamento medico intensivo, e la cui sofferenza è sostenuta e
grave e non può essere alleviata in alcun modo. Un esempio di quest’ultimo caso
sono i bambini che sopravvivono grazie al sostegno di una tecnologia sempre più
avanzata, ma per i quali appare presto chiaro che, finito il trattamento
intensivo, la loro vita sarà piena di sofferenze intollerabili e senza la speranza
di alcun miglioramento”. In sintesi, l’infanticidio è stato esteso anche a
bambini non terminali ma semplicemente disabili.
I parametri giudicati sufficienti per
deliberare un intervento di “life-ending”, o come la chiamano in Olanda di
“terminazione”, sono la “mancanza di autosufficienza”, “mancanza di capacità di
comunicazione”, “dipendenza ospedaliera”, “aspettativa di vita”. “Euthanasia in
Severely Ill Newborns”. E’ il titolo dell’ormai famoso articolo del New England
Journal of Medicine nel quale i due pediatri olandesi Verhagen e Pieter J. J.
Sauer annunciarono al mondo il “Protocollo di Groningen”, il documento medico
più esplosivo e controverso degli ultimi dieci anni. Nel 2004, il centro medico
di Verhagen all’Università di Groningen invase le prime pagine di tutte le
principali testate internazionali con l’ammissione che avevano praticato
l’eutanasia pediatrica. Da qui la decisione di pubblicare le linee guida per
l’eutanasia neonatale che l’ospedale aveva eseguito nel porre fine alla vita di
22 neonati tra il 1997 e il 2004.
Anche l’Hastings Center Report, una delle
principali riviste di bioetica del mondo, ha pubblicato un saggio di Hilde
Lindemann e Marian Verkerk, “Ending the Life of a Newborn”, in cui i due autori
sostengono che “porre fine attivamente a una vita qualche volta può essere più
umano di aspettare la morte di una persona”. Verhagen ha ammesso di aver
praticato l’eutanasia su quattro bambini nei tre anni precedenti alla
pubblicazione attraverso l’iniezione letale di morfina e di midazolam (un potente
sedativo).
A Norimberga i medici tedeschi furono
impiccati perché colpevoli di infanticidio. Oggi l’introduzione e la
legittimazione di quello stesso crimine viene discussa sulle pagine delle più
prestigiose riviste accademiche e lo si pratica nei corridoi delle migliori
unità neonatali d’Europa. Come scrive Mireille Horsinga-Renno nel libro
sull’eutanasia nazista “Cher Oncle Georg”, “qual è l’oggetto della civiltà se
non quello di far sbocciare il fiore fragile di una speranza collettiva (che si
poggia sul rispetto della dignità di ciascuno) sul letame e la sporcizia? Forse
il letame sta di nuovo esalando i suoi miasmi? Come il comignolo del castello
di Hartheim che sputava il suo fumo di morte”.
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