sabato 19 ottobre 2013

Ma esistono le persone potenziali?



Autore: Luporini, Giulio  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it

giovedì 5 settembre 2013

Nei giorni scorsi, sul sito Superando.it, mi sono imbattuto nel dibattito suscitato dal documento L’approccio bioetico alle persone con disabilità, realizzato dal Comitato Sammarinese di Bioetica. Non intendo entrare nel merito dei contenuti dello stesso Documento, ma mi permetto di intervenire a proposito del contributo offerto da Chiara Lalli (Ma l’aborto è una discriminazione verso i disabili?), suggerendo alcuni spunti di riflessione.
Nell’articolo in questione si sostiene che l’aborto di feti affetti da malattie e malformazioni, diagnosticate in fase prenatale, non comporta discriminazione nei confronti di persone disabili, per il semplice motivo che non si tratta di persone, ma di persone potenziali: «interrompere una gravidanza riguarda le persone potenziali e non implica necessariamente un giudizio su quelle attuali. […] Pretendere di sostenere che siccome mio figlio ha un certo statuto (quello di persona attuale), allora lo aveva anche allo stadio di embrione, sarebbe come pretendere che siccome oggi sono vecchio dovevo esserlo anche vent’anni fa».

Prima ancora che sugli aspetti etici e morali, che il dibattito sull’aborto da sempre suscita, credo sia decisivo interrogarsi veramente sullo statuto ontologico dell’embrione e sulla validità logica di argomentazioni come quella sopra riportata. Infatti, come la stessa Lalli sostiene, «è proprio la riflessione a mancare» e spesso è l’emozione a prevalere come unico criterio decisivo. 

Allora proviamo a riflettere: ha senso parlare di persone potenziali? L’analogia tra “feto (persona potenziale)-bambino (persona attuale)” e “uomo giovane (potenzialmente vecchio)-uomo attualmente vecchio” è davvero adeguata?
Non è possibile qui addentrarsi nel grande tema della persona, mi limito per tanto a utilizzare una nozione di persona il più condivisibile possibile: definire l’essere umano persona significa affermare il suo essere qualcuno e non qualcosa, il suo essere relazione con altri, il suo essere dotato di natura razionale.
Esistono persone potenziali? Il filosofo tedesco Robert Spaemann non ha dubbi sulla insensatezza, dal punto di vista filosofico, di parlare di persone potenziali: «Non esistono persone potenziali. Le persone possiedono capacità, potenze. Le persone possono svilupparsi. Tuttavia, non si può sviluppare qualcosa per diventare persona. Da qualcosa non si sviluppa qualcuno. Se la personalità fosse uno stato, esso potrebbe sorgere gradualmente. Se invece la persona è qualcuno, che si trova in determinati stati, allora essa precede già da sempre questi stati. Essa non è il risultato di una trasformazione, ma di una generazione come la sostanza secondo Aristotele. Essa è sostanza, perché essa è il modo in cui l’uomo è. Essa non incomincia a esistere successivamente all’uomo e non si estingue prima di lui. L’uomo inizia a dire “io” dopo molto tempo. […] Nonostante questo però non diciamo “allora è nato qualcosa dal quale io mi sono sviluppato”. Io ero questo essere. La personalità non è il risultato di uno sviluppo, ma sempre già la struttura caratteristica di uno sviluppo. Per il fatto che le persone non sono assorbite nei loro stati di volta in volta attuali, possiamo intendere il loro proprio sviluppo come sviluppo ed esse come unità di questo attraverso il tempo. Questa unità è la persona».

Quest’ampia citazione ci permette di capire come forse sia necessario un po’ più di rigore, da un punto di vista logico, per evitare di giungere a conclusioni affrettate: l’essere bambino, giovane, adulto, vecchio sono sempre stati di “qualcuno”. Nessuno, a meno che non si identifichi la persona con le sue stesse capacità, si permetterebbe di dire che uno stato più sviluppato comporti maggiore dignità. L’uomo adulto avrebbe, altrimenti, più dignità di un neonato. L’assurdità di una tale posizione è facilmente rilevabile, anche da un punto di vista sociale: proprio perché il bambino è più debole, in virtù di uno sviluppo ancora da raggiungere, viene maggiormente tutelato, per garantirne la dignità di persona.
Ma dal momento che il feto è anch’esso uno stato di quello stesso sviluppo, che senza alcuna interruzione procede dal concepimento fino alla morte, perché non deve essere trattato come persona visto che è lo stesso “qualcuno” che diventerà bambino, giovane, adulto, vecchio?
L’argomento della vecchiaia, per cui se oggi sono vecchio non vuol dire che lo ero vent’anni fa, con cui si vuole escludere che l’essere oggi persona implichi l’essere persona del feto, è costruito in modo fallace: l’essere vecchio è uno stato che presuppone sempre un “qualcuno”; la persona è appunto quel “qualcuno” senza il quale non sarebbe possibile parlare di sviluppo a riguardo del processo attraverso il quale si passa dal feto al bambino, dal bambino all’uomo adulto. 
D’altra parte, se si vuole invece fare coincidere la persona con l’esercizio in atto delle sue capacità relazionali e razionali, come ad esempio fa il filosofo Singer, si arriva inevitabilmente a ritenere lecito anche l’infanticidio. Infatti, il bambino, in particolare il neonato, a differenza dell’adulto in grado di intendere, volere e rapportarsi agli altri, non risulterebbe, esattamente come il feto, persona. Tuttavia, giustamente, ci rifiutiamo anche solo di considerare l’ipotesi dell’infanticidio. Come mai? Forse anche perché l’essere presente del neonato davanti a noi suscita emozioni più forti di quanto non le susciti il feto, in qualche modo nascosto e visibile solo attraverso gli “occhi” della tecnologia, che inevitabilmente ce lo rendono più lontano, apparentemente meno umano (anche se è vero che gli studi sullo stesso feto e le stesse ecografie, se interpretate correttamente, possono aiutarci a capire meglio il “volto” dell’embrione). Direi allora che vale, ma in senso contrario, quanto sostiene Chiara Lalli: «l’emozione soffoca la ragione», non perché si attribuisce personalità all’embrione, ma perché non ci si sforza di vedere fino in fondo chi è l’embrione. Ragione e affezione sono entrambe necessarie per stare adeguatamente di fronte al feto, come al bambino, come a qualsiasi essere umano, senza ridurlo a mero oggetto, manipolabile secondo i nostri interessi. Non si tratta allora di escludere la dimensione affettiva, ma di coglierne il suo valore decisivo e costitutivo nelle vicende umane. L’essere persona richiede il riconoscimento dell’altro: senza tale riconoscimento, come può facilmente sperimentare chiunque, diventa più difficile, se non addirittura impossibile, il pieno sviluppo di sé.

Nello stesso articolo, citando il contributo dato da Simona Lancioni al dibattito suscitato dal Documento del Comitato Sammarinese di Bioetica, si afferma: «è inammissibile restringere l’autodeterminazione della donna. Il corpo è il suo e solo lei può scegliere se portare avanti una gravidanza oppure no». Assistiamo ad un’altra riduzione della ragione che, visto il delicato argomento, dovrebbe sforzarsi di cogliere il più possibile l’integralità delle questioni in gioco. Nessuno vuole mettere in discussione l’autodeterminazione delle donne, ma siamo sicuri che il problema sia riconducibile al diritto della donna di vivere liberamente il suo corpo? È inutile dire, come mostra sempre più chiaramente la conoscenza scientifica, che l’embrione, il feto non sono parte del corpo della donna, ma un individuo che è altro rispetto alla stessa donna. La decisione della donna deve fare i conti perciò con qualcosa che è altro: il nuovo individuo che esiste e si sviluppa all’interno del corpo della donna. Esiste certamente una relazione di dipendenza assoluta dalla donna, ma questo non mette in discussione in alcun modo l’essere altro del feto. D’altra parte non è una dipendenza inferiore quella che esiste tra il neonato e la madre, ma nessuno mette in discussione l’alterità del figlio nato. Inoltre bisognerebbe ammettere che la decisione dell’interruzione di gravidanza può coinvolgere almeno altre due persone, oltre alla donna e al nuovo individuo che è l’embrione: il padre del nascituro e il medico che deve praticare l’aborto. È forse anche in questo caso un’argomentazione troppo semplicistica quella che fa dell’autodeterminazione della donna l’unico criterio valido per cercare di capire come muoversi in situazioni particolarmente difficili e drammatiche come quelle in questione, dove invece sono molteplici le libertà chiamate in causa, ovviamente anche se a titolo diverso. 

Infine, mi si permetta un’ultima considerazione su ciò che Chiara Lalli chiama «il fantasma dell’eugenetica “alla Hitler”», definendolo in questo modo perché, secondo lei, «il dominio in cui ci muoviamo oggi, discutendo di fine vita o di interruzione volontaria della gravidanza, nulla ha a che fare con la prospettiva illiberale dei regimi dittatoriali». Indubbiamente non viviamo sotto una dittatura, ma questo non toglie che si possa perseguire, attraverso metodi apparentemente meno violenti ma forse più subdoli, il tentativo di costruire una mentalità in cui è messa in discussione la dignità della persona relativizzandone il valore. Lo stesso Hitler, accanto all’operazione T4, con cui si era proposto di eliminare i disabili, i malati mentali (70.000 – 100.000 vittime), visto anche la strenua opposizione di uomini come il vescovo Von Galen, cercò di creare un’opinione pubblica favorevole alle sue politiche eugenetiche ricorrendo ad argomenti pietistici e a una propaganda incentrata sull’idea della “dolce morte”. L’esempio più celebre è il film del 1941, Io accuso, voluto dal medico responsabile del progetto T4, Karl Brandt. In questo film, proiettato in tutte le sale del Reich, una giovane donna, ammalata di sclerosi multipla chiede al marito di ucciderla. Il marito, mosso da pietà, la uccide e viene poi assolto dalla giuria che, colpita dalla domanda «vorreste voi, se invalidi, continuare a vegetare per sempre?», riconosce il valore positivo dell’azione dell’uomo. 

Anche oggi, dietro a molti degli argomenti incentrati sulla presunta pietà nei confronti dei malati, non si nascondono altri interessi e progetti? Forse il rischio di una politica eugenetica non viene da una concezione che subordina il valore della persona alla razza, ma siamo proprio sicuri che si possa escludere il rischio di una politica eugenetica che subordini il valore della persona alla salute e/o a interessi economici?

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