La sentenza della Consulta sulla possibilità di praticare l’inseminazione eterologa va letta con quella del tribunale milanese che ha assolto una coppia che ha una figlia concepita in India, con il gamete paterno ma l’ovulo comprato, così come comprato è stato l’utero che ha permesso la gravidanza. Ovviamente, dato che la bambina è nata, e che ha quasi due anni, sarebbe stato crudele strappare la figlia a coloro che l’hanno allevata e imporre l’adozione, cosa che la legge avrebbe previsto in caso di condanna di pratiche non permesse dalla legge italiana. Quindi i giudici si sono trovati in una situazione che, per pietà, costringeva in un certo senso all’assoluzione. Non si tratta di giustizia, però, ma di una forzatura della giustizia. Diversa invece la sentenza della Corte costituzionale, che ha legiferato sul diritto astratto di inseminazione eterologa, proibita dalla legge 40. Ma le due sentenze hanno in comune la stessa tendenza ad accettare il fatto compiuto, cioè entrambe hanno confermato l’idea, purtroppo molto diffusa, che le possibilità bio-tecnologiche nel campo della fecondazione assistita vadano accettate per il solo fatto che esistono, e che sono efficaci per risolvere dei problemi. In questi casi il problema è la sterilità, nel caso milanese aggravata dall’età della madre: nessuna donna normale, infatti, anche se non è stata sottoposta a cure anti-tumorali, riesce a concepire e molto probabilmente ad affrontare una gravidanza a 54 anni. Il fatto che tutti i giornali, narrando l’episodio, abbiano insistito sulle cure tumorali, sorvolando sull’età avanzata come se non costituisse problema, è una spia significativa del fatto che ormai non vogliamo più accettare nessun tipo di limite naturale, che lo consideriamo addirittura insignificante. L’unica cosa che conta è che la scienza ci permetta di farlo: come se gli strumenti usati dalla scienza per realizzare i desideri degli esseri umani fossero sempre neutri, e i desideri – per il solo fatto di esistere – legittimi. In sostanza, prevale la morale imposta dalla tecnologia: si fa tutto quello che si può fare, e noi dobbiamo adattarci alle possibilità della tecnica, piuttosto che padroneggiarle in base a scelte morali. L’adattarsi al progresso diviene un criterio morale, l’unico criterio riconosciuto, generando una confusione costante fra bene e benessere. Si tratta di problemi gravi: purtroppo però nel nostro Paese una vera discussione su questi temi non si può aprire perché la polarizzazione politica e anche quella fra laici e cattolici è troppo forte per consentire un terreno comune di confronto. Ben diversa la situazione francese, in cui per esempio la filosofa progressista e laica Sylviane Agacinski, proprio a proposito di questi temi, ha messo in guardia contro il pericolo di creare una nuova schiavitù delle donne povere, costrette a vendere il loro corpo o sotto forma di ovuli o come utero, in nome della “libertà” e della “realizzazione” di persone ricche che non sanno, o non vogliono, accettare la frustrazione di un desiderio. Persone che preferiscono non sapere che la “donazione” degli ovuli richiede un intervento chirurgico, preceduto da un pesante trattamento ormonale che sarà fonte di squilibri per tutta la loro vita futura. Che in India le donne che vendono l’utero sono costrette, per tutto il periodo della gravidanza, a vivere in case sorvegliate, per controllare che le condizioni igieniche siano decenti e l’alimentazione sufficiente, e non possono tornare dalla loro famiglia, dove spesso hanno lasciato bambini piccoli. Cioè che sono trattate come animali da allevamento e non da esseri umani, per pochi soldi, per di più. La libertà di superare un limite – quello della sterilità che spesso è solamente conseguenza dell’età – si realizza attraverso l’oppressione di altre donne, ovviamente povere. È veramente incredibile vedere che molti – in primo luogo i radicali – si vantino di questo successo senza vedere che è frutto di una nuova forma di sfruttamento.
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