lunedì 21 aprile 2014

I nuovi diritti “innocenti” all’assalto della coscienza umana. Quell’avvertimento di Havel (1984) e la nostra civiltà sovietizzata 21 aprile 2014 di Pietro Piccinini, www.tempi.it

  «Si può dire che, malgrado la complicazione delle peripezie storiche, l’origine prima dello stato moderno e della moderna politica di potenza sia da ricercare proprio in questo punto, in cui si inizia a “liberare” la ragione umana dall’uomo, dalla sua personale esperienza, dalla sua personale coscienza e personale responsabilità». (Václav Havel, Politica e coscienza, 1984) Sono passati trent’anni da quando Havel, con il suo discorso destinato alla cerimonia per la laurea honoris causa dell’Università di Tolosa a cui il regime comunista gli impedì di partecipare, mise in guardia i suoi amici del mondo libero dal pensare che l’esperienza del totalitarismo non li riguardasse. In realtà, scriveva il futuro primo presidente della Cecoslovacchia democratica, «i sistemi totalitari (…) sono prima di tutto una lente d’ingrandimento delle conseguenze inevitabili del razionalismo dell’Occidente. Un’immagine grottescamente ingrandita delle sue tendenze profonde». Havel invitava i suoi ingenui supporter occidentali a osservare attentamente le dinamiche antiumane in atto oltrecortina, non tanto per esibire solidarietà ai poveri dissidenti come lui, né per favorire la vittoria del capitalismo sul socialismo (erano categorie ideologiche superate già allora), quanto piuttosto per prepararsi essi stessi all’avvento del «dominio totale di un potere ipertrofico, impersonale e anonimamente burocratico» di cui presto avrebbero dovuto prendere atto a loro volta. Insomma Havel ci aveva avvertito: non commiserateci cari occidentali, perché anche a voi prima o poi sarà chiesto il sacrificio della coscienza. Allora forse si poteva solo intravedere la verità di questa specie di profezia. Ma oggi quelle parole tremende sono la nostra pura quotidianità. «L’uomo non è Dio, e giocare a fare il dio si ritorce crudelmente contro di lui. Egli ha abolito l’orizzonte assoluto al quale rapportarsi, ha rifiutato la propria personale “pre-oggettiva” esperienza del mondo e ha relegato nella sala da bagno della propria intimità la coscienza personale e la coscienza morale, come cose esclusivamente private che non riguardano nessun altro». (V. Havel, ibidem) Eclatante documentazione dell’assedio in atto contro la coscienza è, per forza di termini, l’ennesima ripresa della campagna contro l’obiezione di coscienza dei medici rispetto all’aborto. L’ultima occasione è stata, a inizio marzo, il richiamo all’Italia approvato a maggioranza schiacciante dal Consiglio d’Europa, secondo cui l’obiezione di coscienza, espressa dalla stragrande maggioranza dei ginecologi italiani, va sì garantita al personale sanitario, ma «non può impedire la corretta applicazione» della legge 194. È il solito irrisolvibile conflitto fra “diritti” che rende da sempre delicatissima questa materia, e che tuttavia non ha impedito a molti di approfittare della deliberazione per scodellare vecchi e nuovi argomenti ideologici contro l’articolo 9 nella norma italiana: dall’idea di incentivare economicamente i medici abortisti alle proposte di vietare agli obiettori la pratica nelle strutture pubbliche, o di interdire loro l’accesso alle scuole di specializzazione di ginecologia (nero su bianco su Repubblica). Maurizio Mori, ordinario di bioetica a Torino e presidente della Consulta di bioetica, è arrivato a suggerire direttamente l’abrogazione della «clausola» sull’obiezione di coscienza della 194. Con ragionamenti di questo tipo: «La legge oggi prevede che tra i compiti del medico ci sia anche l’aborto. Un giovane che sceglie di fare il medico sa già sin dall’inizio che l’aborto è un intervento sanitario previsto dalla professione», allora «come mai la legge riconosce al medico la facoltà di obiezione di coscienza a un servizio la cui erogazione essa stessa prevede come esplicitamente dovuto?». In effetti, se l’aborto non è che un «servizio dovuto», come può un bravo cittadino, in piena coscienza, rifiutarsi di fornirlo? «Se questa illusione richiederà il sacrificio di milioni di persone in campi di concentramento scientificamente diretti, non è certo questo che inquieterà “l’uomo moderno” (a meno che il caso non conduca lui stesso in uno di tali campi, e la vita che lì si conduce non lo rigetti bruscamente nel mondo naturale). Non è certo questo che l’inquieterà, poiché il fenomeno della compassione personale per il prossimo appartiene al mondo ormai abolito dei pregiudizi personali, al mondo che ha dovuto cedere il passo alla Scienza, all’Oggettività, alla Necessità storica, alla Tecnica, al Sistema, all’Apparato; e questi non possono provare inquietudine perché non sono personali. Sono astratti e anonimi, sempre utilitari e, per questo, sempre a priori innocenti». (V. Havel, ibidem) Aborto. Universitari Cl contestati a Madrid In tema di “diritti riproduttivi” il tentativo di relegare la coscienza «nella sala da bagno della propria intimità» non è solo italiano. In Svezia, per esempio, l’operazione è perfettamente riuscita. L’obiezione di coscienza all’aborto, sebbene sia tutelata da trattati internazionali sottoscritti anche da Stoccolma, è semplicemente un non-argomento ormai, e se qualche settimana fa il paese è tornato a parlarne è per via di un’ostetrica, Ellinor Grimmark, che si è rifiutata di collaborare alle interruzioni volontarie di gravidanza, è stata licenziata dall’ospedale in cui prestava servizio e non è più riuscita a trovare lavoro perché, naturalmente, «per quelli che hanno le sue opinioni non c’è posto qui». Ma l’assalto alla coscienza non è necessariamente legato all’“obiezione” in senso tecnico. Il 20 marzo scorso – per citare uno fra i tanti episodi del genere che capitano ogni giorno un po’ in tutto il mondo “civilizzato” – alcuni studenti di Comunione e Liberazione sono stati aggrediti nei locali dell’Università di Madrid da un gruppo di femministe e dei collettivi anarchici per avere osato distribuire un volantino in cui esprimevano apprezzamento verso un progetto di legge inteso a rivedere la liberalizzazione selvaggia dell’aborto operata in Spagna nel 2010 da Zapatero. Su quel pezzo di carta avevano scritto che «non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana», e che l’ivg andrebbe vista non come diritto assoluto della donna bensì quanto meno «in chiave di conflitto di interessi» tra la madre e il nascituro. Ma una volta che un fatto come l’aborto è diventato un «servizio dovuto», perdendo agli occhi dell’uomo (coscienza) tutti i suoi terrificanti connotati reali, chiunque proverà anche solo a metterlo in discussione dovrà essere combattuto in quanto reazionaro. Illiberale. «Fascista» (così gridavano le femministe agli studenti ciellini). «Nel mondo della tradizione razionalista e dei concetti ideologici c’è forse un modo migliore per neutralizzare ogni uomo onesto e capace di pensare liberamente (principale pericolo per ogni potere impersonale) di quello di proporgli una tesi il più possibile semplice, recante tutti i segni esteriori di una causa santa?» (V. Havel, ibidem) È un meccanismo prêt-à-porter che si può osservare, replicato con varianti, in molte campagne ideologiche. Havel nel 1984 faceva l’esempio del pacifismo, la mitica causa della guerra alla guerra. E oggi quale causa è più «santa» della lotta alle discriminazioni? In questo ambito il giochino è facilissimo. Inevitabile prendere a esempio la questione dei cosiddetti “diritti” Lgbt. L’unione fra persone dello stesso sesso non ti sembra proprio #LoveIsLove? Sei “omofobo”. Ti disturba che ai tuoi figli tocchi sciropparsi la teoria del gender a scuola? Lo chiameremo “corso anti-omofobia”. E indovina un po’ chi è l’omofobo. È così che si costringe la coscienza a rintanarsi nella sala da bagno dell’intimità personale con tutte le sue obiezioni non più “innocenti”. «Questo processo di anonimizzazione e depersonalizzazione del potere, e la sua riduzione a mera tecnica di dominio e manipolazione, ha ovviamente mille forme, mille varianti ed espressioni; talvolta è nascosto, non appare, talaltra è del tutto manifesto; talvolta è strisciante e le sue vie sono raffinatamente tortuose, talaltra è, al contrario, brutalmente diretto. Ma quanto alla sostanza si tratta di un movimento unico e universale». (V. Havel, ibidem) Certo, a volte possono essere necessarie le maniere forti per ottenere lo scopo. Vedi il disegno di legge “anti-omofobia” in discussione al Senato italiano; oppure, in Francia, il diritto dei sindaci all’obiezione di coscienza rispetto ai matrimoni gay, prima promesso e poi negato dal governo Hollande. Ma non è detto che sia necessario perseguire l’infame per le vie legali. Può essere perfino più efficace percorre le «vie raffinatamente tortuose» della burocrazia, come è avvenuto per i corsi di gender nelle scuole del nostro paese, introdotti all’insaputa di quasi tutti con la scusa dell’adesione al solito ignoto “programma europeo”. Altre volte, invece, la «causa santa» prevale quasi da sé. Havel direbbe: per «necessità storica». Guido Barilla ha dovuto creare in azienda un “Comitato per la diversità e l’inclusione” (affidandolo a David Mixner, «nominato dal Newsweek il gay più potente d’America») per potersi ritenere finalmente purificato dal marchio dell’omofobia piombatogli sulla capoccia dopo che aveva espresso pubblicamente il suo «concetto differente rispetto alla famiglia gay». Solo pochi mesi dopo è scoppiato lo scandalo Mozilla, il colosso americano del software che a inizio aprile ha licenziato il suo amministratore delegato fresco di nomina, il genio dell’informatica Brendan Eich, perché si è scoperto che nel 2008 aveva osato donare mille dollari a sostegno del referendum per limitare la definizione di matrimonio all’unione tra uomo e donna nella costituzione della California. Per giustificare l’epurazione Slate, rivista capofila di molte battaglie “antidiscriminazione” negli Stati Uniti, ha scritto che «la gente può continuare a pensarla e a sentirla come vuole in privato. (…) Ma gli standard sociali evolvono, e se possiamo trarre un’indicazione dal polverone Mozilla, siamo all’apice di una nuova epoca in cui le personalità pubbliche non possono più dar voce al loro anti-gay animus e pretendere di essere trattate con rispetto, né tanto meno di rimanere leader e volto pubblico di una grande azienda». Si noti come il solo fatto di non riuscire a vedere un “matrimonio” in una unione tra persone dello stesso sesso basti già per ritrovarsi addosso un «anti-gay animus» da nascondere subito nella stanza da bagno della propria intimità. Pochi giorni fa poi è degenerata la vicenda di John Waters, columnist del quotidiano irlandese Irish Times. Accusato di omofobia durante uno show della tv di Stato Rté per essersi messo di traverso con la propria coscienza nel dibattito sul matrimonio gay, Waters ha ottenuto le scuse e un risarcimento dal network (che tuttavia, nota bene, si è rifiutato di definire l’accusa «infondata»), ma da quel momento la sua vita è diventata impossibile. È stato preso di mira più volte per strada, anche con insulti pesanti, tanto da non riuscire a dormire la notte. «Non ho più amici nei media», dice. E ammette di aver pensato di mollare il giornalismo per ritirarsi – ma guarda il caso – a vita privata. «Il problema è di sapere se si riuscirà in qualche modo a ricostruire il mondo naturale come vero terreno della politica, a riabilitare l’esperienza personale dell’uomo come criterio originale delle cose, a porre la morale al di sopra della politica e la responsabilità al di sopra dell’utilità, a dare di nuovo un senso alla comunità umana e un contenuto al linguaggio dell’uomo, a far sì che il punto focale dell’azione sociale sia l’“io” dell’uomo, l’“io” autonomo, integrale e degno, capace di rispondere di se stesso perché in rapporto con qualcosa che è al di sopra di lui». (V. Havel, ibidem) In questo assedio alle coscienze “diverse” ogni tanto parte anche qualche carica per così dire più folcloristica. È il caso per esempio della battaglia contro il razzismo negli stadi, trasformata in autentica comica dalle squalifiche di intere tifoserie per colpa di pochi somari che intonano cori da «discriminazione territoriale». O della pazza idea, solo accademica e più sciocchina che altro per ora, di perseguire penalmente i “negazionisti” del riscaldamento globale. O, ancora, dell’assurda proposta di legge per introdurre il reato di “sessismo” in Belgio, compreso il rischio paradossale di dover punire in quanto sessista pure chi dà del sessista a un maschio. Fa un po’ meno ridere, invece, il fatto che dopo la batosta subita da Hollande alle elezioni amministrative francesi si cominci a bollare come “eurofobo” (lo ha fatto per esempio il Corriere della Sera) chi ha scelto di votare certi partiti troppo recalcitranti alle direttive di Bruxelles. E – per cambiare completamente argomento – continuare a sostenere, in barba all’ordinamento italiano, che siano “pubbliche” solo le scuole statali non è in un certo senso un modo folcloristico per relegare le cattive coscienze libere nelle sale da bagno degli istituti “privati”? «La prospettiva di un futuro migliore di questo mondo non risiede forse in una sorta di comunità internazionale di “coloro che hanno subìto il crollo”, di coloro che, incuranti dei confini degli stati, dei sistemi politici e dei blocchi di potere, al di fuori dei giochi della politica tradizionale, non aspirando a funzioni e posti di riguardo, senza prestare ascolto alle derisioni dei tecnologi, tenteranno di fare della coscienza umana una forza politica reale?». (V. Havel, ibidem) Ecco. È giusto riconoscere alla coscienza umana «forza politica», rilevanza pubblica anche quando contraddica il potere? O meglio, il potere può comandare all’uomo di relegare la coscienza «nella sala da bagno della propria intimità» quando essa sia costretta a obiettare alla «causa santa» stabilita dal potere stesso? È il mega interrogativo intorno a cui si sviluppa la disputa presso la Corte suprema americana sul cosiddetto “contraception mandate”. Bisogna stabilire se la Hobby Lobby, azienda leader del fai-da-te di proprietà di una famiglia cristiana battista, possa legittimamente opporsi all’obbligo previsto dalla riforma sanitaria di Obama di pagare per i dipendenti piani assicurativi che includano la copertura di contraccettivi e farmaci abortivi. «Il governo non dovrebbe chiedermi di andare contro la mia coscienza», protesta Steve Green, il fondatore della società. Si tratta cioè di stabilire se l’opposizione dell’impresa ricada nelle libertà sancite dal Religious Freedom Restoration Act, legge varata nel 1993 per proteggere la fede delle persone dalle invasioni normative dello Stato, o se invece non costituisca un tentativo di imporre le convinzioni della proprietà anche ai dipendenti. La questione non è affatto banale, e infatti attualmente è dibattuta in altre decine di cause che coinvolgono anche opere di diretta ispirazione religiosa. Perciò sono particolarmente istruttivi i dubbi sollevati dagli alti giudici durante gli “oral arguments” del 25 marzo, così come li ha riportati la stampa americana. Il tenore è più o meno questo. Se riconosciamo ai datori di lavoro cristiani l’esenzione dal contraception mandate, teoricamente l’Obamacare potrebbe essere disfatto un pezzo alla volta in base ai precetti religiosi di chiunque: no alle trasfusioni, no ai trapianti, eccetera (strepitosa la battuta del giudice di nomina obamiana Sonia Sotomayor: «Sarà tutto spezzettato, nothing would be uniform»); ma se avessimo saputo che tutelare la libertà religiosa si sarebbe tradotto nel permettere alle aziende di far valere pubblicamente la propria fede, l’avremmo tutelata? Va da sé che in un’aula di tribunale, per quanto “supremo”, sia complicato assumere un punto di vista diverso da quello “impersonale” della giurisdizione. Ma se si potesse prescindere un istante da leggi e prescrizioni di qualunque tipo, incluse quelle religiose e statali, è chiaro che agli occhi dell’uomo il problema è personalissimo. La realtà – un bambino che nasce, la mano che glielo impedisce – parla o no alla coscienza umana? Ha o non ha diritto di espressione nell’era del potere senza volto? «Il secolo scorso abbiamo visto tutti noi le dittature del pensiero unico, che hanno finito per uccidere tanta gente. Ma (…) anche oggi c’è l’idolatria del pensiero unico. Oggi si deve pensare così e se tu non pensi così, non sei moderno, non sei aperto o peggio. Tante volte dicono alcuni governanti: “Io chiedo un aiuto, un aiuto finanziario per questo”. “Ma se tu vuoi questo aiuto, devi pensare così e devi fare questa legge, quell’altra, quell’altra…”. Anche oggi c’è la dittatura del pensiero unico e questa dittatura è la stessa di questa gente (i farisei del Vangelo, ndr): prende le pietre per lapidare la libertà dei popoli, la libertà della gente, la libertà delle coscienze, il rapporto della gente con Dio. Ed oggi Gesù è crocifisso un’altra volta». (Papa Francesco, omelia della Messa alla Casa Santa Marta, 10 aprile 2014)

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