«Non mi pare un gran risultato lo smantellamento della legge 40, che aveva almeno tentato di bilanciare gli interessi degli adulti con i diritti del generato». Il professor Adriano Pessina, direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, commenta così, a poche ore dalla pronuncia, la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa nei casi di infertilità assoluta. «Con la sentenza si prosegue lungo la strada che riduce la generazione a un evento tecnologico, governato in primo luogo dal desiderio degli adulti, con scarsa o nessuna attenzione nei confronti dei diritti del nascituro e a quel riferimento, eticamente normativo, per cui dovrebbe essere almeno garantita, specie laddove si ricorre a prassi giuridicamente regolate, la certezza circa l’identità dei propri genitori».
Non c’è il rischio che su questi temi si faccia un po’ di confusione?
Per onestà intellettuale, occorre smantellare gli equivoci linguistici che nascondono la realtà dei fatti: dal punto di vista descrittivo, con la retorica del dono si dimentica che i cosiddetti donatori di gameti sono i reali genitori. Del resto, a smentire la categoria del dono, basta ricordarsi che si parla di “banche del seme”. Va almeno chiarito che, in caso di infertilità femminile, alla donna viene assicurata semplicemente l’esperienza della gestazione e del parto, perché la madre biologica resta la “donatrice” di ovulo. Che problemi si aprono ora? Dal punto di vista etico e costituzionale, la legge dovrebbe garantire al figlio l’accesso all'identità del donatore, sia per motivi sanitari sia esistenziali. Ormai è evidente dalla letteratura internazionale che con l’introduzione dell’eterologa sono sorti nuovi e gravi problemi per i figli, dettati dal fatto che si vengono a determinare “fratelli” biologici, che non si conoscono e non sanno nemmeno di esserlo, perché sono stati generati con il seme del medesimo donatore anonimo. Queste ricadute non sono semplicemente prevedibili, ma documentate da ciò che avviene negli altri Paesi dove è evidente il disagio sociale provocato dall’eterologa.
Ha senso affermare che la fecondazione eterologa rientra nel diritto alla salute?
Su questo tema sembra di assistere a un’estensione indebita ed equivoca del concetto di salute riproduttiva, con una sorta di dotta ignoranza rispetto alla letteratura psicoanalitica, in cui emerge il vissuto complesso e problematico di coloro che accedono a queste prassi e che a volte le vivono, a distanza di anni, come una sorta di tradimento del patto coniugale.
E la salute?
Non solo la fecondazione eterologa non ripristina, come nessuna forma di riproduzione extracorporea, la salute dei potenziali genitori - che se vorranno avere altri figli dovranno tornare a usare della stessa tecnica - ma pone di fatto problematiche etiche, esistenziali e psicologiche che hanno a che fare con la salute psichica dei genitori e dei generati, di cui nessuno sembra occuparsi. Quale diritto alla salute si viene allora a tutelare?
Ma che cosa c’è, allora, dietro questa scelta?
La fecondazione eterologa è di fatto un’incauta mentalizzazione della generazione, per cui le coppie e in particolare la donna, sembra preoccupata in primo luogo di ottenere, realmente a tutti i costi, il figlio desiderato, mettendo in secondo piano i diritti del nascituro stesso.
E a livello sociale, cosa potrebbe cambiare?
Con questa sentenza, si avalla di fatto, attraverso la tecnica, la trasformazione della famiglia e della generazione stessa con una evidente penalizzazione della pratica dell’adozione.
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