La constatazione che viviamo durante un’epoca di cambiamenti, anzi di trasformazioni profonde e radicali, è così ripetuta e ovvia da divenire un luogo comune. Eppure non è inutile. Se tutto corre vertiginosamente, c’è qualcosa che rimane e che ci permette di cogliere quanto di prezioso e positivo c’è nel cambiamento, ma anche ciò che vi è in esso di negativo ed anzi dannoso per l’uomo e la sua vita presente e futura?
È compito del vescovo operare questo discernimento assieme alla sua Chiesa e a favore della sua Chiesa, traendo dalla Tradizione ecclesiale, in cui ha un posto particolare la Sacra Scrittura, l’orientamento e la luce per educare il suo popolo, con l’aiuto essenziale dello Spirito Santo. Il vescovo non è uno psicologo, un sociologo, un filosofo e neppure propriamente un teologo. È buona cosa che sia esperto di filosofia e teologia, può essere aiutato dalla conoscenza delle scienze umane, ma non può certo mettersi a competere con gli esperti di ogni singola disciplina. Deve trovare le luci che orientino il cammino, lasciando ad altri l’approfondimento creativo e dialettico delle risposte.
È indubbio che una delle trasformazioni più profonde che sta avvenendo sotto i nostri occhi, ma che in realtà è in atto da alcuni secoli, riguarda la concezione che l’uomo ha di se stesso.
Semplificando potrei dire così: due grandi opzioni, due grandi alternative si sono poste allo sguardo dell’uomo che si osserva vivere, agire, crescere e avviarsi verso la maturità e la vecchiaia. La prima: “Io sono un mistero a me stesso, mi accorgo innanzitutto di essere stato generato, mi sono trovato al mondo, non sono io che mi sono voluto. Certo, posso intervenire su tanti aspetti della mia persona, fisica, psichica, morale (si pensi quanto questo è vero con lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie alle scoperte della scienza), ma non posso negare un dato incancellabile: all’origine del mio essere c’è un altro o ci sono degli altri”. La riduzione della natura a cultura non può nascondere un inizio che non è prodotto dal soggetto.
La seconda: “Io sono l’artefice della mia realtà di uomo o di donna. La vita è un farsi da sé, secondo i propri sentimenti, le proprie opzioni o idee. In questa costruzione continua del proprio io può stare anche la costruzione della propria sessualità, anzi della propria identità sessuale, sempre cangiante a seconda dei desideri delle varie età della vita”.
Ognuno può vedere come questa seconda posizione, in cui l’uomo ha, o pensa di avere, una totale capacità di plasmare a piacimento il proprio io, sia il frutto di filosofie e di ideologie che hanno cambiato profondamente l’uomo europeo.
Le scoperte scientifiche, grandioso segno dell’altezza dell’ingegno umano, sganciate da ogni considerazione etica e sociale, hanno fatto dell’uomo un nemico di se stesso e dei propri fratelli. Se non c’è più nessuna natura da riconoscere e rispettare, rimane soltanto la forza e l’esito sarà una guerra terribile degli uni contro gli altri. Papa Francesco, nella Evangelii Gaudium, ci ha messo in guardia dalla «diffusa indifferenza relativista» che «non danneggia solo la Chiesa, ma la vita sociale in generale. Riconosciamo – scrive – che una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali» (Evangelii Gaudium, 61).
A quest’ultima visione dell’uomo come artefice di se stesso si rifà la teoria del gender, dei generi, apparsa per la prima volta negli Stati Uniti quasi sessant’anni fa. In realtà essa è frutto di una lunga incubazione del pensiero occidentale, che ha trasferito la propria attenzione sempre più dalla persona all’individuo, slegato da ogni appartenenza e portatore soltanto di diritti.
Essa vuole «rifondare la società su un’“umanità nuova”, “liberata” dai termini uomo e donna, padre e madre, sposo e sposa, figlio e figlia, matrimonio e famiglia»[1].
Divenuta norma politica universale dalla quarta conferenza dell’ONU sulle donne del 1995, è «da allora una delle priorità trasversali del governo mondiale. […] Benché il suo contenuto sia di una violenza inaudita, aberrante, la rivoluzione del gender utilizza strategie e tecniche di trasformazione sociale dolci, che la rendono spesso impercettibile»[2].
«Questa nuova antropologia rifiuta una natura umana comune a tutti – scrive il filosofo Vittorio Possenti – e ritiene che l’essere umano sia una mera costruzione sociale in cui emergono la storicità delle culture, la decostruzione e la relatività delle norme morali, la centralità inappellabile delle scelte individuali»[3]. La differenza corporea viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale (il gender) è ritenuta primaria. «L’identità sessuale diventa una scelta libera, mutabile anche più volte»[4].
Vorrei fare alcune osservazioni. È un bene per l’uomo e per la donna essere portati a considerare che è senza significato avere un’identità sessuale chiara, anzi, che sia meglio non averne nessuna? Il maschile e il femminile non sono forse necessari per la definizione stessa della condizione umana? Non si può certo sostenere che la differenza tra uomo e donna sia una teoria nata col cattolicesimo[5]. Essa è piuttosto un’evidenza razionale, confermata dall’insegnamento della tradizione giudaico-cristiana.
Silviana Agacinski, scrittrice, giornalista e filosofa francese, ricercatrice presso la Scuola di Alti Studi e Scienze Sociali a Parigi, ha scritto numerosi libri sul rapporto tra i sessi. Ha riassunto le sue ricerche in un articolo pubblicato di recente («Vita e Pensiero», febbraio 2013): «L’idea che il genere umano è sessuato, formato da uomini e donne, costituisce l’oggetto di un’esperienza universale, legata al modo in cui gli umani si generano gli uni dagli altri, come la maggior parte dei viventi. Platone definisce la differenza sessuale come una differenza relativa alla generazione. Anche la Bibbia la lega alla fecondità, soprattutto in uno dei due racconti dedicati alla creazione dell’uomo: […] maschio e femmina li creò (Gen 1,28). Queste parole vertono a un tempo sull’unità e sulla dualità dell’uomo, creato da subito plurale, maschio e femmina. Come immagine di Dio, l’uomo è uno, ma allo stesso tempo, è due»[6]. Mi sono permesso questa lunga citazione di una studiosa laica perché essa mette in luce l’accordo fra ragione e tradizione giudaico-cristiana. L’Agacinski nelle sue opere sottolinea quanto la donna, dal punto di vista culturale, abbia dovuto lottare per il riconoscimento della propria parità. Anche attraverso i movimenti femministi. Ma nella teoria del gender si tratta di ben altro. «Possiamo certo ammettere – scrive – che la norma eterosessuale tradizionale pesi su chi non può riconoscersi in essa e che sia quindi necessario interrogarla per rompere il vecchio tabù che pesa sull’omosessualità e per rispettare gli orientamenti sessuali di ognuno. Ma la diversità degli orientamenti sessuali non sopprime la dualità dei sessi: la conferma, anzi. In effetti possiamo parlare di orientamenti – eterosessuali, omosessuali o bisessuali – solo se supponiamo fin dall’inizio che esistano almeno due sessi. Che si desideri l’altro sesso, o che al contrario non lo si possa desiderare, significa che i due sessi non sono equivalenti. L’assenza di equivalenza è confermata anche dalla sofferenza di coloro, maschi o femmine, che esprimono un imperativo bisogno di cambiare sesso»[7]. Rifacendosi alle teorie di Gaston Bachelard, l’Agacinski sostiene che è l’ipotesi della fecondità a suggerire la differenza sessuale: «la procreazione implica sempre il concorso dell’altro sesso. […] Anche in laboratorio la partecipazione dei due sessi è necessaria»[8].
È interessante notare come studiosi laici mostrino il legame stretto che esiste tra sessualità e fecondità, illuminando così le riflessioni che già Paolo VI sviluppò nell’enciclica Humanae vitae e che soprattutto Giovanni Paolo II riprese nelle catechesi sull’amore umano.
Il Magistero non vuole solo proporre una propria visione dell’uomo e della donna, radicata nella rivelazione cristiana. Sa di parlare in questo modo di alcuni elementi antropologici che hanno una valenza universale.
Ha detto a questo proposito il cardinale Gerard Müller nella sua lectio magistralis con cui ha inaugurato l’Anno Accademico della Facoltà Teologica di Milano: «Il concetto di “natura” rappresenta quel fondamento indisponibile senza cui l’uomo non riuscirebbe più a fissare, oltre i labili e volubili contorni delle maggioranze di ogni tempo, i confini non negoziabili della sua dignità e identità, e quindi dei suoi diritti e doveri. Una dignità e identità che sono “donate” all’uomo, che l’uomo è chiamato dapprima a riconoscere e poi ad attuare, e che nessuno può auto-fabbricarsi, pena lo smarrimento di quelle identità e dignità e un fraintendimento di quei diritti e doveri: ciò che appunto oggi è già accaduto ed avviene»[9]. Emblematiche, a questo proposito, anche le parole che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha pronunciato il 24 marzo scorso nella sua prolusione al Consiglio Permanente della CEI: «La lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni».
Non posso, poi, dimenticare l’ultimo discorso alla curia romana di papa Benedetto XVI. Riferendosi proprio al tema che stiamo trattando, sottolineò: l’uomo «nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato»[10]. Soltanto questa visione dell’uomo e della donna ci permette ancora di parlare di famiglia, altrimenti svanisce il luogo pensato da Dio per l’accoglienza e la crescita dei figli. Per questo il papa allora concludeva: «se non esiste la dualità di maschio e femmina come dato della creazione, allora non esiste neppure più la famiglia come realtà prestabilita dalla creazione. Ma in tal caso anche la prole ha perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è propria».
Non a caso l’Agacinski così chiudeva la sua analisi: «Non ci si è per nulla preoccupati degli effetti che [l’impossibilità di risalire ai genitori biologici] potrebbe produrre nei figli stessi. […] Adesso li conosciamo meglio, poiché molti di questi figli rifiutano, più tardi, di essere prodotti fabbricati con l’aiuto di provette congelate e vorrebbero sapere a quale uomo o a quale donna, in altre parole a quali persone, debbano la vita, per potersi iscrivere in una storia umana. […] Il problema dei bambini a venire, cioè delle future generazioni, è che nessuno li rappresenta sulla scena politica democratica: non possono manifestare, né essere ricevuti, né essere ascoltati. Non costituiscono alcuna forza. Il legislatore deve però preoccuparsi delle condizioni della loro venuta»[11].
Giustamente a questo proposito Eugenia Scabini parla di un «vuoto di origine: […] l’itinerario a ritroso che l’umanità oggi rischia di percorrere trascina al ribasso la persona dal riconoscimento al misconoscimento, all’indifferenza, all’incuria»[12].
Il panorama culturale e sociale che abbiamo sinteticamente tracciato è certamente drammatico, ma non deve indurci a una visione pessimistica o remissiva rispetto al futuro. Al contrario: siamo certi che, proprio in questo contesto, più luminosa brilla la luce di tanti uomini e donne, di tanti genitori, di tante famiglie, che con la loro vita testimoniano la verità e la bellezza della famiglia, del matrimonio, della vita cristiana così come Gesù Cristo, colui che svela l’uomo all’uomo, ce l’ha mostrata.
Viviamo in un tempo affascinante, in cui tutti siamo personalmente chiamati a riscoprire e testimoniare pubblicamente le ragioni della nostra fede e della tradizione che i nostri padri ci hanno consegnato. È il tempo della testimonianza.
Massimo Camisasca
[1] M. Peeters, Tre miti da smascherare, in Osservatore Romano, 3-4 marzo 2014, p. 5.
[2] Ibidem
[3] V. Possenti, Gender, deriva culturale che vuole negare la realtà, in Avvenire, 5 marzo 2014, p. 3.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. A. Pessina, in D. Monti, «Sì ai diritti per le coppie gay. Ma si nasce da uomo e donna», in Corriere della Sera, 4 Gennaio 2013, p. 20.
[6] S. Agacinski, La metamorfosi della differenza sessuale, in Vita e Pensiero, n. 2 2013.
[7] S. Agacinski, cit..
[8] S. Agacinski, cit..
[9] G. L. Müller, Alcune sfide per la teologia nell’orizzonte della «cittadinanza» contemporanea. Lectio magistralis in apertura dell’Anno Accademico della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, Milano, 13 febbraio 2014.
[10] Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2012.
[11] S. Agacinski, cit..
[12] E. Scabini, La crisi dei fondamentali dell’umano. Riscoprire l’attrattiva dei fondamentali, in «Tempi», 17 marzo 2014.
pubblicato su “La Libertà”
nell’immagine: Marc Chagall, La creazione dell’uomo (1958).
giovedì 10 aprile 2014
Nota di mons. Massimo Camisasca sulla teoria del gender, redazione il 4 aprile 2014, www.sancarlo.org/it/
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