di Alberto Carrara, LC
Coordinatore del Gruppo di Neurobioetica (GdN)*
* questo testo è tratto dalla prima parte dall'articolo dell'autore pubblicato sulla rivista Studia Bioethica, vol. 6, n. 1, 2013, pp. 21-24 ed è una sintesi della sua Lectio di martedì 8 aprile 2014.
Sin dai tempi più remoti, il tema della libertà umana ha coinvolto l’interesse dei migliori pensatori. In un modo o nell’altro ci troviamo davanti alla contraddizione e allo scandalo tra determinismo e libero arbitrio.
Leon Tolstoi sintetizzava, nella seconda parte dell’epilogo della sua monumentale opera intitolata Guerra e pace, la conclusione filosofica a cui era giunto: “nel caso presente, è ugualmente necessario rinunciare a un’inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo” [1]. Il grande scrittore russo non poteva certamente immaginare che dopo più di un secolo, il suo stesso scetticismo relativo alla libertà umana sarebbe tornato di moda, alla ribalta tecnico-scientifica e mediatica, alimentato questa volta dalla “rivoluzione” in campo neurologico.
In epoca contemporanea, diversi neuroscienziati sono fieri di “sposare”, su basi scientifiche, l’interpretazione del libero arbitrio che Tolstoi propone. Ecco allora emergere la problematica in tutta la sua forza: siamo davvero esseri dotati di libertà, oppure automi in balia di uno stretto determinismo neurobiologico? Nel fondo la questione si riassume nella domanda seguente: che cos’è la libertà?
Oggigiorno, lo sviluppo delle capacità tecnologiche rende possibile studiare in vivo e visualizzare le aree del nostro cervello osservandone, anche in tempo reale, la loro maggiore o minore attivazione nelle circostanze più svariate. Questo ha prodotto un vero e proprio fiume di studi scientifici.
L’elettroencefalografia e lo sviluppo delle tecniche di neuroimaging (tra le quali è da annoverarsi l’ormai famosa fRMN, detta anche risonanza magnetica funzionale) non poterono per molto rimanere confinate alla pura, anche se importantissima, area clinica indispensabile alla diagnosi di patologie localizzate a livello cerebrale. Dal laboratorio, queste moderne e sofisticate tecnologie hanno letteralmente invaso la nostra quotidianità. Gli studi scientifici si moltiplicarono (e continuano a moltiplicarsi) in base alla fantasia e al genio di ciascun ricercatore. Dal voler capire le basi neurofisiologiche di attività umane quali la memoria, il linguaggio, la vista, la personalità, etc., si iniziò a studiare uno dei tratti più caratteristici dell’umano: la sua libertà.
Dagli esperimenti di Benjamin Libet degli anni ’80, dalle repliche di Haggard e Eimer, dai lavori di Soon e di Haynes (solo per citare alcuni dei più famosi neuroscienziati coinvolti nel settore), uno stuolo di ricercatori si è prodigato per sviscerare uno dei dilemmi più pressanti che lo spirito umano abbia conosciuto. Sembra proprio che alcuni di questi risultati empirici della ricerca neuroscientifica supportino con forza il fatto che l’essere umano possieda una semplice credenza di agire liberamente, quando, in realtà, sarebbe completamente determinato dal suo stesso cervello.
Possiamo allora rinunciare a ciò che chiamiamo libertà? Essa è soltanto una mera illusione frutto del nostro organo cerebrale? Dobbiamo far nostre le conclusioni di taluni neuroscienziati? Meglio ancora: le interpretazioni neuroscientifiche che vorrebbero aver cancellato per sempre la libertà umana riducendola ad attività elettrochimica cerebrale, sono consistenti dal punto di vista scientifico? Di che cosa realmente ci parlano questi interessanti studi?
Il dibattito contemporaneo in quest’area è stato ben riassunto da Kerri Smith e pubblicato sulla rivista scientificaNature nel 2011[2].
Libet, deceduto il 23 luglio 2007, nacque nel 1916; era un neuropsicologo, ricercatore del Dipartimento di Fisiologia dell’Università della California a San Francisco (Stati Uniti). Si può a ragione affermare che gran parte del dibattito a cui ci stiamo riferendo trova la sua origine nel noto “esperimento di Libet”. Di che cosa si tratta?
Libet e i suoi collaboratori presero le mosse dalle scoperte di Hans Helmut Kornhuber e Lüder Deecke avvenute nel 1965 e di ciò che questi ultimi denominarono in tedesco “Bereitschaftspotential”, “readiness potential”, in inglese, o potenziale di preparazione o disposizione (PD), in italiano. Il PD consta di un cambiamento elettrico che si ingenera in determinate aree cerebrali e che ha la caratteristica di precedere l’esecuzione dell’azione futura[4].
Libet utilizzò un apparecchio di elettroencefalografia (EEG) col quale registrò l’attività cerebrale di una serie di volontari coinvolti nel prendere una decisione, nello specifico, la decisione di muovere un dito. I risultati furono sorprendenti: esistono dei potenziali corticali di preparazione localizzati nella corteccia motoria secondaria (corteccia premotoria) che precedono di circa 350 millisecondi l’azione cosciente al realizzare un movimento volontario. I dati di Libet furono replicati e confermati da Haggard e Eimer che li pubblicarono nel 1999[5].
Nel 2008 John-Dylan Haynes, neuroscienziato del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig in Germania, utilizzando tecniche dineuroimaging (fRMN), realizzò una serie di esperimenti più sofisticati dimostrando che le intenzioni venivano codificate nella corteccia motoria secondaria (frontopolar cortex) fino a sette secondi prima che i partecipanti allo studio prendessero coscienza delle loro stesse decisioni. In pratica, si concludeva lo studio affermando che la cosiddetta libertà umana non era altro che una mera illusione[6].
Recentemente questi risultati furono confermati dallo studio più aggiornato del settore, pubblicato nel giugno 2011. Dodici studenti dell’Università di Leipzig, in parte maschi e in parte femmine, parteciparono allo studio. Nelle conclusioni, oltre a confermare i dati pubblicati nel 2008, si afferma: “questi risultati appoggiano la conclusione che la corteccia premotoria è parte di una rete di regioni cerebrali che danno forma alle decisioni coscienti molto prima che si giunga allo stato di coscienza delle stesse” [7].
Quali conclusioni possono essere desunte da questi dati sperimentali?
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[1] L. Tolstoi, Guerra e pace, vol. IV, Mondadori, Verona 1957, p. 385.
[2] Kerri Smith, Neuroscience vs philosophy: Taking aim at free will, Nature 477, 2011, pp. 23-25.
[3] Benjamin Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, in « Behavioral and Brain Sciences», volume 8, pp. 529-566.
[4] H.H. Kornhuber und L. Deecke, Hirnpotentialänderungen bei Willkürbewegungen und passiven Bewegungen des Menschen: Bereitschaftpotential und reafferente Potentiale, Pflugers Archive für die Gesamte Physiologie des Menschen und der Tiere 284, 1965, pp. 1-17.
[5] Haggard and Eimer, On the relation between brain potencials and the awereness of voluntary movements, in «Experimental Brain Reserch» 126, 1999, pp. 128-133.
[6] Soon, C. S., Brass, M., Heinze, H.-J., Haynes, J.-D., Unconscious determinants of free decisions in human brain, in «Nature Neuroscience» 11, 2008, pp. 543-545.
[7] Bode, S. et al., Tracking the Unconscious Generation of Free Decisions Using UItra-High Field fMRI, in «PLoS ONE» 6, 27 giugno 2011.
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