Un errore. Forse si scrive un numero per un altro o si compila male un modulo, fatto sta che una coppia che aveva cercato un figlio in provetta ora si ritrova con due bebè invece che uno e nemmeno figli loro. Infatti, come recita il referto di un esame genetico fatto al terzo mese di gravidanza, i «profili genetici dei due feti non sono compatibili con quelli dei genitori». In buona sostanza c’è stato uno scambio tra embrioni.
Il tutto è avvenuto il 4 dicembre dello scorso anno all’ospedale romano Sandro Pertini quando in una bella mattina invernale quattro coppie si sottopongono alla fecondazione artificiale. Per tre coppie le prime fasi della gravidanza hanno buon esisto. Una di queste si sottopone ad alcuni accertamenti di routine e si scopre che i due gemelli non sono biologicamente figli della coppia richiedente. Di converso, anche il figlio di quest’ultima o è nel ventre di una delle rimanenti due donne che stanno ancora portando avanti la gravidanza oppure è stato impiantato nell’utero di quell’unica donna la cui gestazione si è già interrotta.
Il governatore della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha istituito una commissione di indagine che si riunirà oggi alle 17.00 e da un paio di settimane ha ordinato la chiusura dell’unità per la sterilità del Pertini.
La parola più spesa in queste ore a commento della vicenda è “malasanità”. A noi viene da sostituirla con “malvagità”. Se si decide, così come permette la legge 40, di trattare la persona umana come un prodotto e quindi di compiere un’azione malvagia, come poi stupirsi che qualcuno commetta qualche grossolano errore nello “stoccaggio” del prodotto? La manipolazione dell’embrione porta con sé tutti quegli errori fisiologici propri della manipolazione. L’artificio va a braccetto con la fallacia, marchio di fabbrica dell’homo sapiens ma pur sempre errans. Se l’uomo è ora individuato in una provetta con un codice a barre o un numero seriale – così come quando al supermercato dovete pesare i pomodori e pigiare sulla bilancia il numero corrispondente a “pomodori” – è naturale che le sviste siano all’ordine del giorno. Sì, all’ordine del giorno perché questa vicenda è ora sotto i riflettori dal momento che l’errore si è scoperto, ma chissà quante altre sostituzioni simili ci sono state però non sono state rilevate. E dunque chissà quanti pargoletti ora girano per case di genitori che non sono i loro.
Comunque è un po’ da puritani indignarsi per questo fatto di cronaca. Diciamo che al Pertini a dicembre avevano solo anticipato ciò che la Corte Costituzionale solo qualche giorno fa ha deciso con sentenza: provette aperte all’eterologa. Infatti l’errore alla fine non è tale se si considera che i tecnici di laboratorio distratti hanno realizzato né più né meno che un’eterologa. Certo, senza consenso della coppia, una specie di eterologa inconsapevole diciamo. Ma, si sa, le nuove frontiere della scienza si varcano solo a prezzo di qualche sacrificio.
Tra l’altro al Pertini sono andati anche oltre a quello che da ieri l’altro ha permesso la Consulta: trattasi infatti di maternità surrogata. E la donna che ora sta prestando l’utero ad un’altra mamma dovrà decidere se portare a termine la gravidanza, se una volta portata a termine tenersi i figli o se invece dovrà restituirli. La vere madri avranno un bel vociare chiedendo indietro i propri bebè perché sull’utero della rispettiva controparte pende la spada di Damocle dell’aborto. Forse si ipotizzerà uno scambio alla pari: “Io lo faccio nascere a patto che tu faccia lo stesso”. Una sorta di accordo pre-parto o di riscatto puerperale.
Qualche commentatore – anche in casa cattolica – ha trovato subito il colpevole: la mancanza di tracciabilità dell’embrione (“tracciabilità” è termine che deriva dal mercato alimentare, per sapere da dove viene il filetto di manzo che hai nel piatto). Questo sarebbe il nocciolo della questione: regole certe di individuazione dell’embrione e il gioco (delle provette) è fatto. Più che mai indispensabile la tracciabilità ora che i giudici della Consulta ci hanno regalato l’eterologa. Per la serie: fai il male, ma fallo bene, con accortezza e precisione svizzera. A ben vedere è la stessa ratio della 194, la legge sull’aborto: il male non è la soppressione del figlio – il male non è produrre un figlio in provetta – bensì il difetto del rispetto delle procedure. L’indignazione non è per la Fivet in sé, ma per l’errore nel protocollo. E’ tutta questione di forma, bellezza. Anzi - è proprio il caso di dirlo – è tutta questione di “etichetta”. Quando invece il vero errore non sta nell’imperizia di qualche camice bianco, bensì nelle stesse tecniche di fecondazione artificiale.
Manco a dirlo poi che per paradosso reclamando la tracciabilità si fa il gioco del nemico perché si adottano le sue stesse categorie mentali, si accettano le sue stesse regole del gioco.
Quello che è accaduto in quel di Roma è infine la testimonianza che se si prende in giro madre natura – o Iddio Padre – prima o poi questa si ribella e, per così dire, tenta di rimettere a posto le cose. E sì, perché una volta i bambini ti venivano come ti venivano, senza troppo programmarli. Ora il Fato, complice la distrazione umana, ha mescolato un po’ le carte come una volta, inserendo quella quota di imprevisto che era il sale, assai sgradito, della trepidazione di ogni madre e di ogni padre.
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