mercoledì 16 aprile 2014

Il "diritto al figlio" capovolge i princìpi costituzionali di Gianfranco Amato, 16-04-2014, www.lanuovabq.it

La vicenda dello scambio di embrioni all’ospedale Pertini di Roma ha aperto il vaso di Pandora. I primi ad accorgersene sono i giuristi, i quali hanno denunciato la pericolosa totale assenza di disciplina in materia. Una lacuna normativa talmente grave da far rievocare il mitico Far West. Quello che è accaduto non integra nessun reato, perché la legge penale non prevede nulla in materia. La legge civile, invece, non dice nulla circa l’eventualità che, una volta nati i gemelli, il padre biologico intenda rivendicarne la paternità, o che il padre ingannato voglia disconoscere il figlio che non è a lui geneticamente collegato con il DNA. Si aprono scenari tanto inediti quanto sconfortanti.

Durante un programma radiofonico, il conduttore di una trasmissione che trattava della vicenda del Pertini, si è spinto ad ipotizzare una sorta di sabotaggio. Poiché non esistono precedenti al mondo, e quello italiano è il primo ed unico caso – questa la tesi del conduttore – tutta la vicenda non si sottrae al sospetto di un’azione deliberata per screditare il procedimento di fecondazione artificiale, visto il dibattito in corso. Una perfida manina incaricata dalla lobby clericale e oscurantista del mondo pro-life legato al Vaticano. A parte la risibilità della tesi, sono i fatti a sbugiardare il fantasioso conduttore.

Chi si occupa di bioetica sa che non sono infrequenti episodi come quello accaduto al Pertini, anche se non sempre vengono facilmente riconosciuti. In alcuni casi l’errore si rende evidente ex se, come è avvenuto nel primo incidente di questo tipo registrato in Gran Bretagna il 15 luglio del 2002, quando una donna bianca ha partorito due gemellini di colore nero. In altri casi, invece, i responsabili delle cliniche tentano di evitare lo scandalo.

Qualche anno fa, e precisamente nel 2009, io stesso mi sono occupato, ad esempio, di un caso avvenuto, tanto per cambiare, nel Regno Unito. Una coppia non più giovanissima, Deborah e Paul, si era rivolta all’University Hospital of Wales di Cardiff per “regalare una sorellina” al proprio figlio di sei anni, anch’esso ottenuto attraverso la fecondazione medicalmente assistita. Ecco cosa è accaduto. Dopo vari tentativi falliti, Deborah, ormai quarantenne, ha la possibilità di diventare madre attraverso l’impianto dell’ultimo degli embrioni rimasti. Del tutto inaspettatamente, però, la Direzione della clinica le comunica la ferale notizia: l’embrione, a causa di un incidente di laboratorio, è stato gravemente danneggiato. Pochi giorni dopo viene scoperta una diversa e drammatica verità. L’embrione, in realtà, era stato impiantato per errore nell’utero di un’altra donna, errore che è costato la vita ad un essere innocente. Sì, perché quella donna, avvertita del disguido, ha poi deciso di abortire.

La clinica si è scusata ed ha offerto a Deborah un ciclo gratuito di trattamenti per ritentare l’inseminazione artificiale, ottenendo la comprensibile risposta di un secco no, unitamente ad una citazione per danni. Anche l’incredibile vicenda di Cardiff, tra l’altro, apre inquietanti interrogativi morali e giuridici.

Qual è, per esempio, la motivazione con cui è stata autorizzata la soppressione dell’embrione impiantato per errore? Anche un incidente di laboratorio può ora assurgere a criterio per eliminare un essere innocente? Quali sono i diritti dei genitori biologici di quell’embrione? E’ giusto non averli messi al corrente della soppressione? Si può davvero ridurre tutto, come è accaduto, ad un semplice risarcimento di danno? Si sarebbe forse potuto tentare di salvare una vita innocente consentendo, almeno, la possibilità di proporre una maternità surrogata? La donna che ha abortito, se messa al corrente delle circostanze, avrebbe forse accettato di portare a termine la gravidanza e consentito a Deborah e Paul di avere un figlio? Si può davvero disporre di embrioni con tale disinvoltura, all’insaputa dei genitori naturali?

Tali interrogativi mostrano che quando la scienza corre più velocemente della ragione e del cuore dell’uomo si dischiudono scenari inimmaginabili.

Ma, del resto, è lo stesso principio della fecondazione in vitro che è messo in discussione. Una visione consumistica della vita, in cui dilaga ogni forma di egoismo interiore, fatica a percepire che paternità e maternità non possono essere ridotti ad un mero fenomeno biologico, e che l’uomo è, in realtà, capace di una fecondità infinitamente più grande di quella carnale.

Il cosiddetto “diritto al figlio” in realtà non solo non esiste, ma costituisce un capovolgimento di quei principi costituzionali che antepongono la tutela giuridica del nascituro alla soggettività del desiderio. Tra il capriccio dell’adulto e la tutela giuridica del nascituro, è sempre quest’ultima a dover prevalere. Quantomeno in una società che pretende di definirsi civile.

Questo assunto non deriva né da una concezione religiosa né da una prospettiva politica, ma è semplicemente una questione antropologica legata al senso stesso della vita di ogni essere umano, in quanto ciascun essere umano è inevitabilmente madre, padre o figlio, ed al nesso tra questo senso e il significato di tutto, di ogni rapporto con la realtà. «È per questo» come scriveva mons. Luigi Giussani «che un uomo e una donna che non hanno figli e che ne adottano sono veramente padri e madri nella misura in cui educano un figlio. Molto più della grande maggioranza che getta fuori dal ventre il figlio e non si cura del suo destino». Ma dell’adozione, ossia di questa “tecnica” così poco scientifica, così poco costosa e così profondamente umana parlano in pochi.

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