giovedì 21 ottobre 2010

Daniela, chiusa nel suo corpo. Ma viva - Dopo il parto è stata colpita dalla Sindrome «locked-in»: comunica attraverso il battito di una palpebra Ora le hanno tolto fisioterapia e logopedia. «L’assistenza domiciliare mi garantisce solamente un dottore e un’infermiera, il resto è delegato alla famiglia. Mi sento umiliata» - di Fabio Cavallari – Avvenire, 21 ottobre 2010

Sentiva, ascoltava ogni parola. Vedeva quanto le stava accadendo attorno. Per circa 5 mesi nessuno si è accorto che era «presente». Immobilizzata, imprigionata in un corpo privo di reazioni, ma vigile. Sola, come nessuno può esserlo. I medici pensavano fosse in stato vegetativo o di minima coscienza, comunque assente, priva di consapevolezza. Daniela, 39 anni, moglie, madre, insegnante, ha vissuto un incubo, un delirio a mente lucida. Locked-in syndrome (Lis), la «sindrome del chiavistello». Tutto ha inizio il 27 agosto 2005. Daniela deve partorire. Un evento lieto, l’inizio di una nuova avventura. Una gravidanza tranquilla. Alle 19 nasce Camilla. È una bellissima bambina, sana, vigorosa. Luigi è arrivato a casa da un paio d’ore. Nel silenzio squilla il telefono. È Daniela. Ha la voce molto agitata, piange. «Corri, sto male». Forti dolori alla testa, nausea, vertigini. Luigi fa appena in tempo a stringerle la mano. Una carezza sulla fronte e Daniela entra in coma. Verso le 3 di notte, dopo una Tac, viene trasferita in terapia intensiva all’ospedale di Cuneo. I medici riscontrano un’emorragia cerebrale al tronco encefalico. Le speranze di sopravvivenza sono minime, qualche ora, forse nemmeno il tempo per tentare un’operazione.


Dopo 40 giorni di terapia intensiva i medici ritengono che la sua stia diventando una permanenza «ingombrante». Deve essere trasferita in una struttura specializzata. Nessun segno lascia presagire un cambio di scena. Tutto ciò sino al primo marzo 2006. È il giorno del compleanno di Daniela. Luigi, di primo mattino, è già accanto a lei. «Daniela era lì davanti a me, priva di qualsiasi reazione. Aveva gli occhi aperti. Uno compromesso dal danno provocato dall’emorragia, l’altro in qualche modo sano. Così, in maniera del tutto artigianale, ho diviso un foglio in quattro quadranti. Il primo con tutte le vocali e gli altri tre con le rimanenti consonanti. Quella mattina l’ho pregata di dirmi qualcosa. Le ho chiesto di chiudere la palpebra quando indicavo la lettera che serviva per comporre la frase, la parola che voleva dirmi. C’è voluto un po’ di tempo. Ma la frase che in quel momento Daniela ha composto non era affatto scontata. «Perché ho sempre sonno?». Queste le sue parole. Daniela era sveglia, sentiva, vedeva. Una scoperta sconvolgente. Ma da quanto tempo era vigile?».

«Quando sono tornata dall’ospedale avevo un’idea dell’assistenza a domicilio che non corrisponde a quanto sto vivendo. Oltre al dolore fisico e morale, devo subire l’umiliazione di sentirmi a carico dei miei familiari. Capisco che una persona in una struttura sanitaria rappresenti un costo per la comunità, ma devo dire che questo problema è acuito a casa dalla battaglia che i miei cari devono combattere per una corretta presa in carico».

«Una volta in famiglia, una persona come me non esiste più, non produce, non è altro che un costo. Sono ferita perché, se si è fatto molto per me sul piano socio-assistenziale, sempre grazie a strenue battaglie, da quello prettamente sanitario permangono gravissime criticità. Vorrei che chi si dovrebbe occupare di noi sentisse, anche per un istante, l’angoscia, la disperazione, l’umiliazione, la tristezza, il dolore di chi, come me, tutto deve sopportare, con impazienza infinita. Non voglio essere una madre virtuale, ma una madre normale. Vorrei la Daniela del passato, ma sfortunatamente nessuno mi può far ridiventare tale. Oggi ho voglia di parlare di me per tutti quelli che non possono farlo: si dice «mens sana in corpore sano», ma dal primo di aprile mi hanno tolto la fisioterapia e la logopedia, in un paese che si definisce civile. Solo i servizi sociali mi mandano gli operatori socio sanitari. L’assistenza domiciliare integrata mi garantisce solamente un dottore e un’infermiera, cosa importante, ma il resto è delegato alla famiglia e così mio marito, dopo una giornata di lavoro, deve arrangiarsi. Io mi sento molto umiliata».



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