domenica 10 ottobre 2010


NATURA ED ETICA DELLA RELAZIONE DI CURA FRA MEDICO E PAZIENTE - di Paola Biondi e Renzo Puccetti, membri dell'associazione Scienza & Vita di Pisa e Livorno (ZENIT.org)

ROMA, domenica, 10 ottobre 2010 (ZENIT.org).- I recenti eventi che hanno meritato le prime pagine dei media per raccontare alcuni episodi aventi per protagonisti alcuni medici la cui condotta si sarebbe caratterizzata non solo quale illecito sotto il profilo della legge (la cui valutazione sarà svolta nelle sedi e dagli organi competenti), ma anche quale violazione dell’etica medica, costituiscono l’occasione per svolgere alcune riflessioni di matrice bioetica che aiutino a collocare nella giusta luce i capisaldi teoretici dell’attività medica all’interno della relazione tra il paziente ed il medico, molti dei quali posti in discussione da molteplici voci della società post-moderna.
I grandi cambiamenti prodotti dallo sviluppo della medicina, se hanno interessato da una parte l’esistenza dei singoli e delle società, hanno contribuito in modo assai rilevante a modificare l’immagine stessa della medicina. Di riflesso, si assiste da più parti alla necessità, quasi all’urgenza, di riflettere sulla relazione tra medico e paziente, ritenuta sempre più marginale nell’ambito del progresso tecnico della medicina, e, invece, così essenziale nell’esperienza reale e quotidiana vissuta dai medici e dai pazienti. Si dice, e a buon ragione, che è indispensabile ri-umanizzare la prassi medica e ri-centralizzare nell’ambito di una vera alleanza terapeutica la relazione tra medico e paziente.
Questa necessità reale rischia, però, di impoverirsi sul nascere, di sfumarsi negli sviluppi e, addirittura, di fraintendersi nella sostanza, se non si inquadra bene la questione di fondo, sia nella valutazione del contesto dove sorge, sia delle cause da cui origina: è parere di chi scrive, cioè, che ci sia, a fronte di un’urgenza reale e motivata di riflettere sulla relazione medico-paziente, il rischio, altrettanto reale, di una sua banalizzazione, o meglio, di una sua non chiara e univoca comprensione allorquando non sia messa sufficientemente nel conto come venga intesa e cosa significhi a livello socio-culturale la relazione medico-paziente.
E’ per questo che, prima di affrontare la relazione medico-paziente, è necessario fare un grosso salto indietro e domandarsi prima di tutto, con adeguato sguardo epistemologico, che cosa sia la medicina e se i suoi obiettivi debbano essere continuamente ristabiliti di volta in volta in base alle priorità e ai bisogni delle società, o se, al contrario, debbano essere stabiliti una volta per tutte indipendentemente dal contesto socio-culturale. La questione della relazione fra medico e paziente, cioè, va inserita prima di tutto, perché tutti si comprenda di cosa si sta parlando, nella grande sfida che si sta consumando tra le due grandi visioni contrapposte della medicina: quella del “social construction of medicine” da cui si distingue la prospettiva “sostanzialista”.
Nella prima, che si tenta di accreditare in ogni ambito della vita sociale (culturale, politico, sanitario, economico), la natura e il fine della medicina si modificano parallelamente alle esisgenze e alle priorità che le società si danno; il modo di interpretare la malattia e le risposte all’esperienza primaria della sofferenza sono difficilmente derivabili da un insieme significativo di convinzioni e valori intrinseci; la medicina è intesa come un capitale di conoscenze in evoluzione e come una gamma di pratiche cliniche prive di un nucleo essenziale stabile, per cui le conoscenze e le pratiche mediche devono essere messe al servizio di tutti gli obiettivi che la società reputa apprezzabili. Secondo tale visione, in sintesi, non esiste una natura intrinseca della medicina e i fini propri della medicina non sono dati universalmente una volta per tutti, bensì sono stabiliti e continuamente ridefiniti (quindi sono mutevoli) a partire dai valori e dalle priorità che quella società in un particolare contesto storico-culturale si dà. La prassi medica, e quindi la relazione medico-paziente, è condizionata dai valori e dalla cultura della società in cui sorge, non vive cioè di una sua specificità che sia oggettivamente, e quindi universalmente, riconosciuta.
Nell’impianto sostanzialista (o essenzialista) della medicina si afferma, al contrario, che è possibile rintracciare nella prassi medica stessa alcune costanti universali, di natura etico-antropologica, che definiscano ciò che specificamente è la medicina. Senza negare che la medicina abbia un legame con la società e la possibile influenza sociale, gli essenzialisti insistono sulla necessità di verificare le forme in cui la medicina si incarna nelle strutture socio-cultrali, ma sempre e solo in base alla conformità con la sua natura e finalità intrinseca, non in base ai condizionamenti e ai vincoli impostele dalle società. Questa visione, perciò, distingue sostanzialmente fra fine e obiettivi (o scopi) della medicina: il fine della medicina è, in termini aristotelici, il telós, cioè la natura stessa della medicina, valida per l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, che è il bene della salute della persona ammalata, da recuperare nell’ambito della relazione medico-paziente; gli obiettivi o scopi della medicina sono invece mutevoli, essi sono stabiliti dalle società, e possono anche contraddire il fine proprio dell’arte medica, cioè la sua natura intrinseca. Volendo esemplificare la società può stabilire tra i suoi obiettivi sanitari che sia compito della medicina e del medico compiere l’aborto o un atto eutanasico; ma questo obiettivo contraddice intrinsecamente la natura della medicina, che nell’atto medico pone il fine del bene della salute e della vita del paziente.
In questa seconda visione (essenzialista) si delinea l’essenza, cioè lo specifico e l’universale, di ciò che è la medicina (la nostra domanda di partenza), definendone natura e fine propri, partendo proprio dalla esperienza della pratica medica: la medicina è essenzialmente (cioè nella sua sostanza) una relazione di cura dotata di una moralità interna, cioè di presupposti e principi interni che ne rispettano la natura, ossia l’essere una relazione di cura. Grazie all’approccio sostanzialista emergono quelle grandi questioni che devono essere tenute di conto quando si parla della relazione medico-paziente, perché si abbia chiaro come questa sia differentemente intesa nella visione della “costruzione sociale della medicina”:
1) La relazione fra medico e paziente non è una relazione qualsiasi, ma è una relazione di cura (non è, per esempio, una relazione di amicizia o una relazione di utenza): questa evidenza è importantissima perché ci specifica meglio in che cosa consista la natura della medicina. La medicina e i medici esistono perché la gente si ammala, perché la persona umana fa esperienza della sofferenza provocata dalla malattia. La medicina è un’arte o tecné che fonda ed esaurisce la sua azione nella prassi medica, cioè nella pratica clinica. Quindi, presupposto della medicina è il riconoscimento da una parte del suo specifico ambito d’intervento, il corpo (non l’intero stare male, condizione che talora può richiedere un supporto spirituale, talora un’assistenza materiale, talora ancora una semplice vicinanza, tutte condizioni che non necessitano la competenza medica, anche se non la escludono); dall’altra, dell’esistenza di un riferimento che costituisce la normalità, in termini bio-fisiologici, ed un riferimento che da esso si discosta in modo e misura tale da costituire la patologia.
La visione della “costruzione sociale della medicina”, invece, non parte da questi presupposti fondativi, perché sta trasformando la relazione medico-paziente in una relazione di utenza, non di cura: questo significa che il paziente non è più visto come persona ammalata ma come utente (cioè etimologicamente usante) e il medico come colui che fornisce la prestazione, qualunque essa sia (cioè un usato, condizione questa che costituisce violazione della dignità umana così come postulato nell’imperativo kantiano: “Agisci in modo da trattare l'uomo, così in te come negli altri, sempre anche come fine e non mai solo come mezzo”). Concordemente, anche in riferimento all’ambito di azione della medicina che sottolineavamo sopra (corpo e malattia), è importante riconoscere in questa relazione falsata e forzata il pericolo che incombe sulla medicina, ossia quella tentazione a valicare i suoi limiti costitutivi, trattando come patologico ciò che invece non lo è (disease mongering), oppure a considerare ogni sofferenza e persino ogni disagio espressione di un’alterazione del meccanismo biologico correggibile con mezzi chimico-fisici (espressione del riduzionismo biologico in ambito sanitario).
2) Questa relazione di cura è intrinsecamente una relazione asimmetrica, sbilanciata: questo perché il medico è in posizione di sapere cosa accade al paziente e ha le competenze per poterlo aiutare; dall’altra parte il paziente riconosce di “non sapere”, è in condizione di vulnerabilità proprio per l’esperienza di malattia che sta vivendo, e volontariamente e fiduciosamente si affida a chi ha conoscenze e competenze per poterlo aiutare. E’ solo nell’asimmetria ontologica della relazione medico-paziente che si può comprendere veramente il concetto di cura.
Anche questo aspetto è fondamentale nella riflessione sulla relazione medico-paziente che stiamo conducendo, perché l’approccio della “costruzione sociale della medicina” tende a trasformare la relazione tra il medico e il paziente in una relazione alla pari, di tipo contrattuale, dove l’utente (paziente) domanda e il medico esegue. Questo approccio contrattualistico, che si vuole diffondere, della relazione medico-paziente critica aspramente e vuole eliminare una visione ippocratica della medicina, che invece è una visione intrinseca alla prassi medica e riguarda intimamente da vicino la relazione di cura fra medico e paziente: per essere veramente libero di scegliere e “autonomo” nel decidere, il paziente ha bisogno, infatti, di essere costantemente informato, formato, guidato ed accompagnato dal medico, che ha promesso (Giuramento di Ippocrate) di fronte alla società di avere le competenze per aiutare chi è ammalato a scegliere e dare il proprio assenso alla cura in maniera consapevole. Inoltre, una relazione contrattualistica, di utenza, finisce spesso per creare un paternalismo rovesciato, dove è l’utente che detta al medico che cosa ci sia da fare. A questo proposito, si assiste al paradosso in cui stanno cadendo proprio gli strenui difensori del contrattualismo in sanità, i quali finiscono per negare i diritti di una delle due parti presenti in ogni rapporto contrattuale, nel nostro caso del medico, allorquando si vorrebbe negargli il diritto di rifiutare il contratto stesso, di cui la clausola di coscienza è solo una delle possibili motivazioni.
3) Dall’incontro tra il bisogno della persona ammalata e la promessa d’aiuto da parte di una persona esperta (il medico) “nasce” in senso proprio la medicina: è allora e solo allora che può concretizzarsi il momento clinico, che come abbiamo detto costituisce la specificità della medicina. Il momento clinico si realizza nell’atto medico: l’azione medica diviene quindi il luogo della epifania, cioè della manifestazione, del carattere squisitamente personale della medicina. La medicina non è una generica o impersonale relazione di cura, ma è la relazione di cura tra quel medico e quel paziente, e questa relazione personale di cura si concretizza in atti, cioè azioni, di cura per ottenere il bene-salute (finalità propria della medicina) del paziente. Ecco che questo aspetto rivela un’altra evidenza basilare della relazione medica: la medicina dispone di una moralità interna in quanto il suo fine proprio (l’ottenimento del bene della salute del paziente) determina non solo la natura della medicina (dimensione ontologica), ma funge anche da criterio per valutare la moralità (la bontà) di un qualsiasi atto che si definisca medico (dimensione assiologica).
La medicina è quindi un’attività intrinsecamente morale, perché ogni azione, sia quella fatta dal medico che dal paziente, è ordinata ad un unico bene, il bene della salute del paziente, che è il fondamento oggettivo e il principio ispiratore dell’azione medica. Ed è proprio questo bene, a cui tende ogni atto medico, che caratterizza quell’atto, che, cioè, ci dice se quell’atto è “davvero medico”! È evidente che la prospettiva essenzialista non può certo accettare quella definizione di salute fornita dall’OMS, della quale sono presupposti proprio la scomparsa dei confini/ambiti della medicina, il costruttivismo soggettivistico e la conseguente ridefinizione contrattualista della relazione medico-paziente.
Infatti oggi, al contrario, si tenta di operare un riduzionismo etico della medicina, come attività umana, in quanto la sua moralità, spogliata progressivamente dei suoi fondamenti oggettivi, è sempre più vista come prodotto di scelte umane o delle convenzioni di ogni specifica società (il soggettivismo, l’emotivismo e, in ultima istanza, il pluralismo e relativismo etico). Se fondamento oggettivo dell’azione medica è il bene della persona umana ammalata attraverso la tutela della sua salute, allora “prassi medica” ed “etica medica” non sono scindibili, e il principio primo che ispirerà l’atto medico sarà quello della “beneficialità nella fiducia”. In questo senso, la prassi medica, diviene luogo di espressione dell’umanità: nell’esperienza di malattia due persone si incontrano e in comunione agiscono e interagiscono per realizzare insieme il medesimo bene, cioè la salute del paziente. In questa relazione, il medico dovrà essere non solo bravo, ma anche virtuoso, cioè buono, esprimendo la sua professionalità attraverso atti medici che rispettino integralmente la persona del paziente; allo stesso tempo, il paziente risponderà compiendo atti di fiducia, affidandosi al medico e alle sue cure. L’incontro tra una fiducia e una coscienza, con cui è definita la relazione medico-paziente nella Carta degli operatori sanitari, deve assumere un dinamismo circolare e valere per entrambe le persone, sia per il medico che per il paziente, in modo che entrambe all’interno di tale relazione si obbligano ad agire con fiducia e con coscienza.
Siamo quindi giunti ad un altro nodo-chiave della relazione di cura tra medico e paziente: per la fondazione dell’ “etica della prassi medica” non si può prescindere dal ricorso ad una “antropologia di riferimento”, che ci dica chi è la persona umana. La “questione antropologica” gioca ovunque un ruolo essenziale, perché solo se si ha chiaro ontologicamente chi è l’uomo, allora si ha chiaro perché si deve rispettarlo, in ogni attività umana, anche e soprattutto in quella specificatamente medica: è nel riconoscimento della dignità (cioè dell’unicità e irripetibilità) di ogni persona che sta il fondamento della dimensione morale, è l’«essere» che fonda e precede il «dover essere».
Alla luce di quanto detto, l’agire del medico non sarà più visto come il dovere estrinseco di rispettare precetti o norme: le norme morali, al contrario, sono motivo ispiratore intrinseco alla prassi medica. E queste nome e principi la regolano in quanto la costituiscono: il primo principio della medicina è non nocēre, ossia ricorda al medico che nella sua azione clinica per raggiungere il bene della salute deve tutelare il primo bene, che precede anche quello della salute, ossia il bene della vita della persona. A questo proposito sembra opportuno ricordare che anche il principio di autonomia si è andato affermandosi nelle aule dei tribunali e nelle carte di regolamentazione della ricerca clinica non come istanza a sé stante ed autoreferenziale, ma come principio a difesa del bene del paziente, minacciato dal tradimento del fine della medicina posto in atto in modo effettuale o potenziale dal medico stesso.
Se ne evince che per il medico lavorare “in scienza e coscienza”, più che un ònere, è un onore, cioè un dovere irrinunciabile, perché è garanzia per il medico di essere davvero un medico! L’ “obiezione di coscienza e di scienza” prima che un diritto è un dovere del medico; anzi, proprio perché è un dovere del medico, allora diviene un diritto che la società deve rispettare e garantire!
L’obiezione di scienza e coscienza, alla luce di quanto detto, diviene elemento essenziale, costitutivo e integrante della relazione di cura tra medico e paziente. Quando il medico si imbatte in alcune richieste, come la prescrizione della “pillola contraccettiva” o di quella “del giorno dopo” o la richiesta di un aborto chimico o chirurgico, si imbatte non tanto nel suo diritto, ma nel suo preciso dovere di fare obiezione di coscienza e scienza. Per vari motivi. Prima di tutto, perché la richiesta che gli viene fatta è una richiesta impropria: la medicina e il medico esistono, abbiamo detto, perché c’è una malattia; ora, nelle situazioni menzionate, dove è la malattia? La gravidanza, anche quando non desiderata, non è certo una malattia. Tale postulato che indica nella contraccezione il momento di “profilassi” e nell’aborto quello di “cura” (sic!), seppure smentibile attraverso numerosi argomenti per lo più si rivela come falso in maniera auto-evidente. Se non c’è malattia, dunque, non può esserci una relazione di cura, nè un atto di cura. In secondo luogo, l’atto medico, perché possa essere definito tale, non deve nuocere e deve rispettare la vita delle persone coinvolte, oltrechè la loro salute: in tutte le richieste fatte non si rispetta né la vita dell’eventuale concepito, né la salute della madre, né di riflesso quella del padre.
L’aborto e tutto ciò che è potenzialmente abortivo non sono atti medici, perché intrinsecamente ledono il fine della medicina, che è sempre e solo il bene delle persone coinvolte. Si potrebbero, allo stesso modo, fare altri esempi che riguardano anche la procreazione medicalmente assistita, la sperimentazione sugli embrioni, l’eutanasia o il testamento biologico: tutte situazioni in cui non può darsi un atto medico. Quello che deve però risultare chiaro è che l’obiezione di coscienza e scienza è parte integrante e costitutiva della relazione di cura medico-paziente e che l’obiezione di coscienza e scienza, dunque, è un dovere del medico, prima ancora che un suo diritto, e diviene un diritto perché prima è un suo intrinseco e specifico dovere.
Da quanto detto emerge con chiarezza che quando la legge promuove e sostiene la medicina del desiderio, obbliga il medico sostanzialista a tutelarsi mediante l’obiezione di coscienza; quando poi si tenta anche di abbattere questo rifugio attraverso regolamenti, norme e leggi, allora è chiaro che al medico ippocratico, all’operatore sanitario sostanzialista rimane una sola scelta: battersi per la propria integrità morale e cercare di vincere, come è accaduto per i medici della Puglia e come è avvenuto pochi giorni fa con la sconfitta nel parlamento europeo del fronte che tentava la ghettizzazione del personale sanitario obiettore. Non si tratta di istanze corporative, né di vi si può leggere alcun desiderio di prevaricazione; è una lotta per difendere una patria, per avere ancora una terra dove il medico può continuare ad essere una persona libera.



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