mercoledì 9 gennaio 2013


Neurobioetica. La ricerca sugli stati di coscienza - http://acarrara.blogspot.it

Abstract della lezione tenuta dal Prof. Alberto Carrara, LC – Ateneo PontificioRegina Apostolorum (Roma – Facoltà di Filosofia, Gruppo di Neurobioetica) presso la SISPI Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano, 3 novembre 2012.
 
Abstract lezione presso il Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia della SISPI- Modulo di Sabato 3/11/2012, ore 15.00-20.00 (termine effettivo ore 18.30)
L’applicazione sempre più rapida ed immediata all’uomo delle scoperte neuroscientifiche, frutto dell’abbondante ricerca che mira a decifrare i misteri del cervello e della mente umana, ha fatto sorgere nell’opinione pubblica sentimenti spesso antitetici. In quasi tutti i contesti socio-culturali, il suffisso “neuro” sta trovando largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-manianeuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet nelle circostanze più disparate.
In questo contesto è sorta la pseudo-disciplina denominata neuroetica oneurobioetica che ha “festeggiato” in quest’anno 2012, il suo 10° anniversario dalla “nascita”.
Il termine neuroetica appare nella letteratura scientifica sin dal 1989 in un contesto prettamente bioetico riguardante le decisioni sul fine vita. In ambito filosofico, questo neologismo entra in scena per la prima volta nella discussione circa le prospettive filosofiche riguardanti il sé (Self) e il suo legame-rapporto col cervello. Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data, a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field. In tale contesto, William Safire, politologo delNew York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano. Il termine neurobioetica, che invece vuol sottolineare la centralità della persona umana in ambito di ricerca neuroscientifica, è stato coniato ed utilizzato per la prima volta nel 2005 dal neuroscienziato James Giordano. Il 10 marzo del 2009, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, sorse il Gruppo di Neurobioetica, una realtà costituita da professionisti e studiosi provenienti da diversi ambiti che attraverso una metodologia di approccio pluri e interdisciplinare affrontano sia le questioni etiche delle Neuroscienze, come pure le Neuroscienze dell’etica.
Uno degli argomenti di frontiera in quest’ambito di ricerca è quello relativo ai cosiddetti “stati di coscienza”. Dopo aver caratterizzato lo sviluppo e la storia della neurobioetica, in questa lezione verranno esposti i principali dati scientifici relativi alla ricerca sugli stati di coscienza cercando di fornire un quadro d’insieme su una tematica ancora molto dibattuta. Ci si avvarrà di un’analisi abbastanza approfondita e critica dei dati neuroscientifici attuali ai quali verranno integrati i relativi fondamenti filosofici ed  antropologici, secondo una visione prettamente personalista.
Un approccio integrativo tra ricerca medica e riflessione filosofica come questo, può essere molto utile per favorire il confronto e un serio dibattito, oltre ad integrare i saperi e le loro applicazioni alla persona umana che si caratterizza sempre, anche quando fragile, malata o prossima alla morte naturale, quale unità-totalizzante di bimensioni biologiche, psicologiche, sociali e spirituali.

1 commento :

    1. Adrian Owen, un neuroscienzato di Cambridge, soprannominato dalla stampa anglosassone «l'uomo che legge la mente», ha dimostrato che un paziente in coma vegetativo può avere coscienza di sé e consapevolezza del mondo intorno. Ha chiesto al suo paziente Scott Routley, un canadese di 39 anni, in coma vegetativo da 12 anni in seguito a un incidente d'auto, se avesse male, il paziente ha usato la mente per rispondere di no. Il tutto è stato documentato in un video andato in onda sulla BBC.

    Owen ha utilizzato la risonanza magnetica (Mri) per scannerizzare il cervello di Scott Routley mentre gli poneva una serie di domande che prevedevano una risposta affermativa oppure negativa. Il test ha dimostrato che le domande sono state recepite e che il paziente ha elaborato la risposta in modo pertinente. Con la stimolazione visiva, olfattiva e tattile Routley non aveva dà segni di consapevolezza.

    «Scott è riuscito a mostrare che la sua mente pensa - ha detto Owen intervistato dalla Bbc - Lo abbiamo testato più volte e sempre c'è stata un'attività cerebrale che ha mostrato chiaramente come stia scegliendo la risposta per la nostra domanda. Pensiamo che sappia chi è e dove si trova.Interrogare un paziente in coma è importante per migliorare la qualità della sua vita».


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