venerdì 12 novembre 2010

Avvenire.it, 12 novembre 2010 - Tutti uguali i bambini, non le unioni da cui nascono - Equipariamo i figli - Ma senza scardinare la famiglia di Francesco D'Agostino

Nella Conferenza sulla famiglia, che si è appena conclusa a Milano il sottosegretario Giovanardi ha rivendicato a merito suo e del governo la recentissima approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un disegno di legge governativo volto a eliminare ogni differenza legale tra figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori di esso, fino al punto di abolire ogni rilievo legale alle stesse espressioni «figli legittimi» e «figli naturali». L’opinione pubblica ha accolto con interesse la notizia, e su questo punto anche coloro che hanno assunto nei confronti di Giovanardi atteggiamenti critici non hanno avuto nulla da ridire (al limite, come Rosy Bindi, hanno rilevato che questa riforma del Codice civile – piccola ma estremamente significativa – arriverebbe fin troppo tardi).
Tutto bene, quindi? Siamo riusciti finalmente a individuare una riforma urgente, necessaria, giusta e soprattutto condivisa da tutti? Sì e no. Vediamo perché.

Su di un punto non possiamo avere dubbi: ogni discriminazione va rimossa, soprattutto quando è avallata dalla legge stessa, e non solo perché la Costituzione ci impone di farlo, ma perché le discriminazioni sono sempre in sé e per sé ingiuste. Quando poi la discriminazione colpisce i bambini, i soggetti socialmente più fragili, e il loro statuto legale le discriminazioni oltre che ingiuste sono odiose e combatterle diventa un vero e proprio dovere morale, oltre che politico. A questo punto, però, nascono i problemi. Per alcuni, infatti, il disegno di legge Giovanardi si riassume esclusivamente in quanto appena detto: si tratta di una giusta riforma di uno dei tanti profili di quel ricco e complesso settore del diritto privato che chiamiamo diritto di famiglia. Per altri, invece, il discorso non si ferma qui. La totale equiparazione legale tra i figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori di esso non serve solo a rimuovere una discriminazione ma costituisce un opportuno passo avanti nella direzione di una totale parificazione legale delle coppie unite in matrimonio e delle coppie di conviventi. C’è una logica in questa pretesa: se il matrimonio non ha alcuna rilevanza per quel che concerne lo statuto giuridico dei figli, è ancora così importante riconoscerlo costituzionalmente (come fa l’articolo 29 della nostra Carta fondamentale) e dare ai coniugi uno statuto giuridico forte, negato ai conviventi?

La risposta a questa domanda deve essere, a mio avviso, assolutamente positiva. Riconoscere pari statuto legale ai figli, comunque nati (da coppie sposate, da coppie di fatto, da donne sole, da una provetta), è doveroso in nome dei diritti delle persone. Riconoscere la rilevanza giuridico-sociale del matrimonio è doveroso, perché il matrimonio veicola quello specifico bene umano relazionale che chiamiamo "famiglia" e che proprio sul matrimonio e solo su di esso trova il proprio fondamento (come dice correttamente il già citato articolo 29). Questo sta a significare che al di fuori del matrimonio non c’è famiglia? Sicuramente sì. Quando leggiamo che è in aumento il numero dei nuclei familiari costituiti da una persona sola percepiamo l’incapacità lessicale della statistica: chi vive, per qualsiasi ragione, da solo non costituisce una famiglia: famiglia è non solo relazione, ma relazione che vuole essere pubblicamente conosciuta e riconosciuta. I rapporti amicali, le relazioni occasionali vanno rigorosamente rispettati e possono anche suscitare simpatia o ammirazione, ma non hanno carattere familiare.

Se questo è vero, si comprende perché il sottosegretario Giovanardi prima e il ministro Sacconi poi abbiano lamentato il diminuire dei matrimoni in Italia e l’aumento delle convivenze, col conseguente aumento del numero dei figli nati al di fuori del matrimonio. È un fenomeno preoccupante, non per ragioni confessionali (secondo il solito refrain dei laicisti a oltranza), ma per ragioni rigorosamente sociali: l’aumento della pratica delle convivenze, indipendentemente dal fatto che sia da ritenere moralmente da stigmatizzare (e per molti, naturalmente, non lo è affatto), denota che il tessuto sociale di base della nostra società (cioè la famiglia) sta diventando pericolosamente fragile. Al di fuori di un sistema di famiglie fortemente strutturate e reciprocamente relazionate diviene molto difficile garantire nel modo ottimale i processi educativi, l’avviamento al lavoro, l’assistenza ai soggetti deboli e marginali. Parificare lo statuto legale dei figli è un dovere di giustizia; rafforzare la presenza sociale della famiglia è un dovere politico fondamentale. Chi non vede il nesso tra le due cose e opera per contrapporre i figli alla famiglia e la famiglia ai figli e opera per indebolire ulteriormente la famiglia è politicamente cieco o, più semplicemente, si lascia guidare da un’ideologia individualistica che ha smarrito il senso del bene umano.

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