giovedì 18 novembre 2010

Gesù e i suoi discepoli di fronte alla sofferenza dell'uomo - Labbra e mani che guariscono - Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento svolto dal presidente del Pontificio Consiglio della Cultura durante la prima giornata dei lavori della conferenza. di Gianfranco Ravasi (©L'Osservatore Romano - 19 novembre 2010)


Le labbra e le mani di Gesù sono due presenze capitali nei Vangeli. Da un lato, c'è la sua parola che inquieta e consola, che annuncia l'"evangelo", la buona novella della salvezza, che provoca alla conversione, alla sequela, all'impegno per l'edificazione del Regno di Dio. D'altro lato, però, ecco i suoi atti di guarigione, il suo chinarsi sulle carni malate, il suo "toccare" i corpi devastati o inerti di tanti emarginati.
Scegliamo solo a caso qualche esempio. Emblematico è il caso dei lebbrosi: "Gli venne incontro un lebbroso. Lo supplicava in ginocchio dicendogli:  Se vuoi, puoi guarirmi! Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: Io lo voglio, guarisci! E subito la lebbra scomparve ed egli guarì" (Marco, 1, 40-41). Questa affezione in Israele era considerata, per la famosa "tesi della retribuzione" (delitto-castigo, quindi malattia-peccato), una vergogna innominabile. Il lebbroso non era, perciò, soltanto un malato, ma soprattutto uno scomunicato. Egli era ritenuto come se fosse stato punito da Dio per una colpa gravissima, era costretto a vivere alla periferia dei centri abitati, solitamente in caverne-ghetto o, come Giobbe, in immondezzai e doveva segnalare la sua presenza appena all'orizzonte si profilasse un cittadino sano e normale. Era, di conseguenza, un uomo socialmente morto, schivato con orrore da tutti i fedeli, timorosi di essere infettati non sono fisiologicamente, ma anche e soprattutto moralmente e sacralmente.
Gesù, invece, si mette sulla sua strada, lo accosta e giunge al punto di toccarlo. Non soltanto non lo condanna, ma, come nota Marco, si commuove profondamente (splanchnisthèis), lo guarisce e lo invia dai sacerdoti, quasi con una punta di ironia, per farsi rilasciare l'attestazione ufficiale di guarigione e di riammissione nella società civile. Abolendo tutti i tabù della casistica etico-giudiziaria di allora, questo atto miracoloso presenta le caratteristiche di un comportamento originale e fin provocatorio di Cristo che privilegia la cura del sofferente sul rispetto del ritualismo sacrale.
Altre volte, invece, è la pura e semplice quotidianità ad essere affidata alle mani di Gesù. Pensiamo al caso della suocera febbricitante di Pietro. Le due mani, quella del Salvatore e della malata, s'intrecciano tra loro:  "la fece alzare, prendendola per mano e la febbre la lasciò" (Marco, 1, 31).
Altre volte il gesto è ancor più concreto e diretto, come quando Cristo "pone le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua del sordomuto" (Marco, 7, 33), rimandando a una prassi terapeutica arcaica, quella che riconosceva un potere efficace in alcune sindromi alla saliva, atto che viene ripetuto nel caso del cieco nato quando Gesù "sputa per terra, fa del fango con la saliva e lo spalma sugli occhi del cieco" (Giovanni, 9, 6). Altre volte semplicemente "tocca gli occhi ai ciechi" (Matteo, 9, 29; 20, 34), liberandoli da un'affezione, quella delle sindromi oftalmiche, quasi endemica nell'antico Vicino Oriente, causata da diversi motivi igienici e ambientali.
Cristo rifiuta di indossare i panni di un mago o di un santone di stampo apocalittico. I suo gesti miracolosi ignorano, infatti, il ricorso agli incantesimi, alle tecniche preternormali, alle scenografie esaltanti, alle eccitazioni oracolari, come avrebbe sognato un seguace in vena di celebrazione del suo maestro e come ancor oggi vediamo accadere in certi movimenti religiosi esasperati e nella curiosità "misterica" popolare.
I suoi atti sono, al contrario, elementari. Come si è visto, tocca gli occhi o le orecchie, impone le mani, prega, dialoga col malato.
A Gesù, più che il suo personale trionfo e il successo del suo movimento, interessano la fede, la conversione individuale e la liberazione dal male, al punto che può persino guarire in disparte dalla folla per evitare pubblicità. L'anima della sua azione è religiosa e non propagandistica o apologetica.
Cristo rifiuta di cavalcare il febbrile entusiasmo messianico-politico dei suoi contemporanei; egli si premura soprattutto di annunziare la venuta del Regno di Dio. Infatti, i miracoli sono quasi una predicazione in atto del Regno, ne sono una rappresentazione efficace e "simbolica", ne sono una conferma "sperimentale".
I miracoli, nelle intenzioni di Gesù, s'intrecciano intimamente con la sua parola e diventano un appello "visibile" alla conversione e alla fede, in coerenza col suo comportamento generale, e non grandi segni pubblicitari e promozionali di un messianismo politico e magico, come avrebbe voluto Satana nel celebre racconto delle tentazioni (Matteo, 4, 1-11).
In "continuità" col suo stile costante di predicazione e di azione in favore dei poveri, degli emarginati e degli esclusi da parte dell'"ufficialità" del suo tempo, Cristo destina soltanto a costoro la sua parola miracolosa, efficace e salvatrice. Per questo, dobbiamo affermare che Regno di Dio, morte e risurrezione e miracoli fanno parte di un unico sistema coerente che definisce il Gesù storico nella sua costante personalità,  ma  anche  della  sua  origina- lità.
C'è, però, a questo punto un elemento decisivo da aggiungere, quello dell'imitatio Christi da parte del discepolo. E questo avviene sulla base di una precisa missione che risale allo stesso Gesù storico. Infatti, come è noto, durante il suo ministero pubblico al gruppo dei discepoli egli assegna un preciso mandato che ha la sua formulazione lapidaria all'interno del secondo dei cinque discorsi incastonati nella struttura del Vangelo di Matteo, il cosiddetto "Discorso missionario".
In questo testo si formula in modo netto lo stesso incrocio tra parola e atti, tra labbra e mani che aveva delineato il ritratto del volto del Maestro e Signore:  "Predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni" (10, 7-8).
Da un lato, si ha dunque il kèrygma, l'"annuncio" che ha il suo programma nella proclamazione del Regno, ossia del progetto di salvezza di Dio. D'altro lato, ecco i segni del Regno in azione, espressi nei quattro imperativi che definiscono altrettante categorie di persone da liberare dal male, sul modello del comportamento di Cristo nel suo agire pubblico:  i malati (asthenoùntes) da curare (therapèuete), i morti (nekroùs) da risuscitare (eghèirete), i lebbrosi (leproùs) da purificare sia fisicamente sia socialmente, come sopra si è detto (katharìzete), e infine la vittoria sui daimònia.
Ebbene, questo programma è messo in opera subito dopo, attraverso la prima missione apostolica allorché Gesù "mandò [i suoi discepoli] a due a due, dando loro il potere sugli spiriti impuri" (Marco, 6, 7).
La loro attività missionaria è esplicitamente modulata sia sull'annunzio, quindi sulla parola:  "proclamavano che la gente si convertisse", sia sull'opera taumaturgica perché le loro mani "scacciavano molti demoni e ungevano di olio gli infermi, guarendoli" (Marco, 6, 13). È ciò che si ribadirà anche nella missione post-pasquale dei discepoli, allorché il Cristo risorto dichiara che i suoi discepoli "nel mio nome scacceranno demoni, imporranno le mani ai malati e questi guariranno" (Marco, 16, 17-18).
In pratica, abbiamo in questi passi sinottici l'anticipazione della promessa giovannea dei discorsi dell'ultima cena:  "Chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre" (Giovanni, 14, 12). Il ministero di rivelazione e di salvezza, di cui i miracoli sono segni, da Cristo proseguirà nei discepoli, ossia nella Chiesa, suo corpo glorioso operante nella storia.
Se volessimo cercare un modello esemplare di quest'azione di liberazione e di amore svolta dal discepolo, potremmo rimandare alla figura parabolica del Buon Samaritano che, non solo si commuove "visceralmente" (splanchnìsthe), partecipando alla sofferenza dello sventurato, ma anche lo cura con premura e con carità operosa. È ciò che è compiuto dagli apostoli nel loro ministero pubblico. Significativa è, al riguardo, la testimonianza delle due colonne della cristianità delle origini, Pietro e Paolo, all'interno del racconto degli Atti.
È significativo che anche l'Apostolo metta in pratica l'appello di Cristo a imporre le mani e a sanare. Ma sempre si ha l'attenzione a evitare di concepire questi atti come puri e semplici eventi taumaturgici. Infatti, o si invoca esplicitamente il nome di Cristo oppure si intreccia il gesto con la preghiera.
Nella Lettera di Giacomo (5, 13-16) si legge un passo meritevole di essere meditato sia dai malati sia dagli operatori pastorali nel campo della sofferenza:  "Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti salmi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato:  il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza". 

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