giovedì 18 novembre 2010

GIUSTIZIA, CARITÀ E BENE COMUNE - ROMA, giovedì, 18 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della lectio magistralis tenuta il 16 novembre da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, per l’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011 dell’Università Europea di Roma.

* * *
Il titolo assegnato per questa mia lezione era così formulato: “Giustizia e bene comune”. Mi sono permesso di integrarlo con la parola “carità”, un elemento indispensabile per completare la proposta cristiana sulla giustizia e sul bene comune.
La debolezza della giustizia
Nel riflettere su questo argomento, m’è tornata alla mente la famosa frase dello Zarathustra in cui Nietzsche mette in guardia dalla riduzione della giustizia a “fredda giustizia”. Afferma: «La vostra fredda giustizia non mi piace, e dall’occhio dei vostri giudici io vedo sempre lo sbirciare del boia con la sua fredda mannaia (…). Inventate quindi la giustizia che tutti assolve, tranne quelli che giudicano (…). Come posso dare a ciascuno il suo! Di ciò possa io accontentarmi: a ciascuno io do il mio».
E’ presente in questa frase il dubbio se la giustizia possa essere tale da sola, senza con ciò trasformarsi in “fredda giustizia”, quella che rende i giudici non giudicabili e che vorrebbe dare a tutti il “suo” senza con ciò dare loro del “mio”, esentandomi così dall’esercizio della carità. Anche Trasimaco, in un famoso passo della Repubblica di Platone, aveva accusato la giustizia: «Io sostengo che la giustizia non è altro che l’utile del più forte»[1]. E’ questa una definizione di giustizia oppure l’avvertimento di un pericolo che incombe sempre sulla giustizia e che la rende strutturalmente debole se fondata solo su se stessa?
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la ragione umana abbia la capacità di conoscere la giustizia, la nostra volontà sia in grado di perseguirla e la politica di organizzarne l’amministrazione. La giustizia ha una dimensione naturale. Eppure constatiamo che una intrinseca debolezza appesantisce tutte queste dimensioni umane della giustizia. Che la giustizia degli uomini sia debole lo aveva ben visto San Gregorio Magno, secondo cui «La giustizia umana paragonata a quella divina è ingiustizia: è come la lucerna che si vede risplendere nelle tenebre, ma posta sotto i raggi del sole non fa più luce»[2].
La Dottrina sociale della Chiesa considera la giustizia come uno dei valori principali della vita sociale e – come afferma il Compendio[3] – richiama al rispetto delle forme classiche della giustizia, quella commutativa, quella distributiva, quella legale e quella sociale, ma in modo altrettanto chiaro riconosce che «Non si possono regolare i rapporti umani unicamente con la misura della giustizia»[4]. Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2004[5] ci ha ricordato il summum jus summa injuria, che assomiglia molto alla “fredda giustizia” di Nietzsche.
Il motivo teologico ultimo di questa insufficienza della giustizia umana a garantire se stessa è dato dal peccato delle origini. L’uomo è “capax Dei”[6], tuttavia il peccato delle origini ne ha indebolito la natura, pur senza annientarla. Dopo il peccato, «l’armonia con la creazione è spezzata»[7], «questo peccato intacca la natura umana, che essi trasmettono in una condizione decaduta»[8]. Ogni volta che per evitare queste debolezze ci si è affidati a degli anonimi meccanismi, le cose sono andare anche peggio.
Il rapporto tra la giustizia e la carità
Data questa debolezza intrinseca alla giustizia, la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre insegnato che essa va trascesa nella carità, la quale però anche la presuppone[9]. In altri termini non si può praticare la carità se non si pratica prima ed anche la giustizia, ma la carità supera la giustizia. Ci chiediamo però: è proprio vero che è possibile praticare la giustizia senza la carità? Non c’è dubbio che la carità sia di più della giustizia, in quanto consiste non solo nel dare a ciascuno il “suo” – il dovuto, il meritato - ma anche nel dare a ciascuno il “mio” – il gratuito, l’immeritato. Ma ciò comporta veramente che la carità non sia presente già nella giustizia, bensì le si aggiunga dopo?
E’ diffusa l’dea che giustizia e carità siano due livelli che si succedono l’un l’altro nel senso che quando finisce la giustizia lì inizia la carità. Se così fosse, però, la giustizia dovrebbe essere in grado da sola di raggiungere i propri obiettivi, in quanto propri del suo livello. Quando essa li avesse raggiunti, allora entrerebbe in campo la carità. In questo senso la giustizia regolerebbe i rapporti umani solo ove qualcosa fosse dovuto, mentre la carità interverrebbe nei rapporti umani che superano il dovuto in una logica relazionale di dono reciproco. Se la giustizia ha bisogno della carità per realizzarsi, significa che la carità deve essere in qualche modo già presente in essa e non aggiungersi dopo. San Tommaso d’Aquino dice che la giustizia è la «misura minima dell’amore»[10]. In questo modo egli sostiene che essa sia già amore.
Nel 2005 ebbi occasione di curare il volume “Diligite justitiam” con cui il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace con gratitudine ricordava i 50 anni di sacerdozio del Cardinale Renato Raffaele Martino[11]. Il Cardinale Attilio Nicora vi aveva partecipato con uno scritto sul rapporto tra giustizia e carità (o pietà, come egli diceva) in un’antica preghiera: l’Adsumus[12]. Tutta la preghiera afferma che la giustizia è impossibile senza la pietà e conclude sostenendo che essa è opera dello Spirito Santo: «Egli ci unisce profondamente a sé al punto tale che Lui stesso agisce attraverso noi suoi discepoli, docili ai suoi suggerimenti e alla potenza che viene da Lui per avere il coraggio di decidere e di portare a compimento le decisioni, secondo giustizia ed equità»[13]. Come si vede, ci sono molti motivi per non intendere in modo troppo sequenziale il rapporto tra giustizia e carità e per pensare che la carità deve essere già presente nella giustizia perché questa possa dirsi tale. Del resto, ciò appare anche da una constatazione elementare; la giustizia ha bisogno di essere amata per poter essere realizzata.
Per mostrare ancora più in profondità come il rapporto tra giustizia e carità non sia di tipo consequenziale, ma come, invece, la giustizia abbia bisogno della carità, ossia del dono e della gratuità, vorrei qui ripercorrere brevemente le tre encicliche di Benedetto XVI.
Il paragrafo 28 della “Deus caritas est”[14]
Il rapporto tra giustizia e carità trova una grandiosa trattazione nel paragrafo 28 dell’enciclica Deus caritas est (2005) di Benedetto XVI[15]. Vi si dice che la giustizia è lo scopo proprio della politica ed anche il criterio per misurarla. Il perseguimento della giustizia spetta quindi a Cesare e non alla Chiesa. Infatti la ragione pratica ha in sé le capacità per determinare la giustizia, per orientare l’agire umano al suo perseguimento e per organizzare le strutture sociali affinché essa sia facilitata. L’ambito della giustizia è quindi autonomo dalla religione e dalla Chiesa e deve essere perseguito in un regime di laicità. Tuttavia la ragione umana non sempre riesce nel suo intento di determinare la giustizia, non solo per quanto riguarda la sua definizione formale, ma soprattutto per quanto riguarda la sua realizzazione pratica. Infatti, dice Benedetto XVI, «il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile». Ecco, quindi, l’insufficienza della ragione a realizzare la giustizia, una debolezza che ha bisogno di un aiuto che tuttavia non può arrivare alla fine del processo, quando tutto sia compiuto, ma deve “purificare” l’attività della ragione stessa e quindi deve esercitarsi durante il suo uso e non dopo. La ricerca della giustizia ha bisogno di essere continuamente purificata, dato che si tratta di una attività morale che deve essere continuamente rifatta propria e non può mai darsi per scontata.
Ora, cosa significa “purificare”? Benedetto XVI dice che la fede «aiuta la ragione ad essere se stessa». Purificare significa aiutare ad essere se stessi, togliendo gli impedimenti che impediscono la realizzazione di sé. Così la carità aiuta la giustizia ad essere se stessa nel mentre la purifica. Benedetto XVI dice che essa reca il proprio aiuto a far sì che «ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato». La giustizia è prima di tutto una virtù umana: non c’è giustizia senza uomini giusti: «Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessun’altra cosa può diventare buona»[16]. E non ci sono uomini giusti, potremmo dire, se non purificati dall’amore che libera la loro giustizia da tutti i limiti di cui sono impastate la loro natura e la loro storia. La carità fa sì che «cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale».
La giustizia nella “Spe Salvi”
Anche l’enciclica di Benedetto XVI Spe Salvi sulla speranza cristiana parla ampiamente della giustizia[17]. Anche in questo caso si ritiene che essa non possa sorreggersi da sola. La giustizia consiste, secondo la formulazione classica, nel dare a ciascuno il suo. Dare a ciascuno il suo significa dare ciò che egli si merita. La Spe salvi, però, sostiene che solo se ci si dà la speranza di poter avere più di quanto possiamo meritare diventa possibile la giustizia. «Non possiamo meritare il cielo con le nostre opere»[18]: l’incedere del dono alimenta la nostra speranza di poter avere giustizia. Per raggiungere la giustizia è infatti necessario superare il proprio benessere e la propria incolumità, perché se questo non avviene allora «vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna»[19]. La giustizia non si ottiene senza una rinuncia dolorosa a se stessi e questa richiede una forza morale e spirituale superiore alla giustizia stessa: «Nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza diventa necessaria»[20] ed è per questo che la giustizia ha avuto anche i suoi testimoni e i suoi martiri, la cui scelta ha espresso un “plusvalore” rispetto alla stretta giustizia. Nella Spe salvi Benedetto XVI dice che «Dio è giustizia e crea giustizia»; «Solo Dio può creare giustizia»[21]. Poiché essa non è in grado di esigersi da sé, essa è sempre anche «grazia»[22].
La giustizia nella “Caritas in veritate”
Ci sono due esperienze umane che più di ogni altra portano con sé le caratteristiche di un senso in dono. Si tratta, per dirla con la Caritas in veritate, della verità e dell’amore. Tutti gli uomini ne fanno esperienza[23], tutti fanno la «stupefacente esperienza del dono»[24] e in quello stesso mentre vengono costituiti nella loro specifica verità e dignità. Nessuno si dà la propria verità, nessuno, per dirla con un Ratzinger del 1969, si toglie fuori da solo dalle proprie incertezze[25]. La mia dignità risulta chiara a me stesso quando sono fatto oggetto di amore e quando scopro la verità, che è sempre più di quanto non ci aspettassimo. Amore e verità ci liberano così dai nostri determinismi e ci rendono maturi e liberi. Non è possibile la giustizia senza una concezione della dignità umana e non è possibile questa concezione senza l’esperienza del dono. Come ho avuto modo di scrivere altrove: «Senza la carità fraterna è impossibile vedere fino in fondo la dignità della persona umana e l’appello che ogni persona debole e fragile ci fa. Certo, c’è la giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo. Ma è veramente possibile vedere fino in fondo in cosa consista quel “a ciascuno il suo” senza la carità? E’ possibile veramente vedere nell’altro, specialmente nell’indigente, non un fardello ma una risorsa, come auspica l’enciclica Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II?»[26].
Una delle affermazioni principali dell’enciclica è quando Benedetto XVI dice che il dono e la gratuità devono entrare a far parte dell’attività economica fin dall’inizio per renderla giusta[27]. Il donare solitamente viene inteso come successivo al produrre. Si dona quanto si è prodotto. L’ambito del gratuito, della reciprocità, della fraternità sarebbe così un ambito che si aggiunge a quello economico della produzione di ricchezza. Secondo questo schema, quindi, l’economia sarebbe pienamente se stessa affidandosi alla logica della giustizia economica, diversa da quella del dono. Poi, una volta dispiegatasi e raggiunti i suoi fini naturali, essa lascerebbe posto al dono.
Ma la Caritas in veritate fa notare che non è vero che si possa produrre senza presupporre una dimensione di gratuità. Non è vero, in altri termini, che il dono si collochi “dopo”[28]. Senza una quantità di beni immateriali non a carattere economico ma gratuito l’economia non funziona. Quand’anche il dono dovesse subentrare dopo che la produzione economica avesse trovato compimento, esso non sarebbe da essa riconosciuto, in quanto non corrispondente alla giustizia economica. Il dono, allora, dovrebbe prescindere dalla giustizia economica, come la giustizia economica aveva precedentemente prescisso dal dono. Ma un dono che non tenesse in conto la giustizia economica non sarebbe nemmeno più tale, sarebbe come la carità senza la giustizia, dato che anche quella economica è una forma di giustizia guidata dall’intelligenza umana[29]. Come non è possibile una giustizia economia senza dono, così non è possibile il dono senza giustizia economica. E’ evidente quindi la complementarietà tra giustizia economica e dono nella Caritas in veritate.
Giustizia, carità e bene comune
Quanto abbiamo visto a proposito del rapporto tra giustizia e carità è di fondamentale importanza per la corretta comprensione del bene comune e per il suo raggiungimento. La Chiesa ritiene che se il bene comune non esprimesse una “vita buona” per l’intera comunità, una “vita nel bene”, ma dovesse invece esprimere una condizione di benessere esteriore ed individuale contrattato convenzionalmente, l’idea stessa del bene comune sarebbe perduta per sempre. Il bene comune, infatti, non è un prodotto delle nostre politiche ma un obiettivo di umanizzazione comunitaria.
Ciò che rende tale la persona, però, non è ciò che essa produce, ma quanto essa riceve. Non siamo noi a poterci dare la nostra dignità né possiamo costruire la nostra fraternità. E senza di ciò non riusciamo nemmeno a costruire la nostra giustizia. Nell’esperienza della carità l’uomo comprende che egli è sempre di più di quanto egli stesso possa fare e che la società è sempre di più di quanto il mercato e la politica possano fare. Capisce che per vivere ha bisogno di qualcosa che egli non può darsi. La comunità umana vive di presupposti che non sa produrre né riprodurre quando vengono meno. Questo qualcosa che non possiamo produrre ci precede e nello stesso tempo è la ragione ultima del nostro agire. Senza la carità il bene comune non si costruisce su rapporti di fraternità ma solo di vicinanza o di utilità.
La carità ci di dona e quindi esprime l’indisponibile. Se tutto è a disposizione la società diventa un mercato o un campo di battaglia.. E’ qui che interviene il Dio dal volto umano, quel Dio che è Carità, come ci ripete Benedetto XVI, ed è quindi la fonte di ogni carità, la sorgente e la garanzia che l’orizzonte del dono e della gratuità non venga oscurato a vantaggio della sola produzione. Chi libererebbe tale produzione dagli inevitabili interessi di parte? La Carità è la difesa della nostra libertà. Essa rende possibili cose “nuove”, non prodotte ma frutto di dono e gratuità, e così rendono anche noi capaci di carità, ossia liberi dagli interessi e dai determinismi.
Nel rapporto tra giustizia e carità si gioca così nientemeno che il posto di Dio nel mondo. Se la giustizia potesse essere raggiunta con le sole nostre forze, allora il cristianesimo sarebbe al massimo utile ma non indispensabile. Ma la giustizia ha bisogno di carità. Senza di essa il mondo non funziona. Il cristianesimo non giunge dopo, alla fine, quando tutti i giochi mondani per ottenere la giustizia sono stati fatti. Il cristianesimo non dà una vernice di santità alla giustizia prodotta dal mondo. La pretesa cristiana è di rispondere ad una attesa di carità che è già nelle cose, al livello di ognuna, con l’autonomia di ognuna. Il cristianesimo non vi si sostituisce, ma getta fin dall’inizio su tutto una luce che permette di valorizzare tutti i frammenti, piccoli o grandi, di carità che stanno ad ogni livello dell’esistenza. La pretesa cristiana non rinuncia al primato di Dio, ma non è integralista. La fede non si aggiunge alla ragione e la carità non si aggiunge alla giustizia, la Chiesa non si aggiunge al mondo … ma sono fin da subito in dialogo reciproco, senza confusioni ma anche senza separazioni.
----------
1) Resp., 338 C.
2) Moralium, V, c. 37, par. 67; PL, LXXV, 716-717.
3) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 201, p. 111.
4) Ivi, n. 206, p. 113.
5) Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 1 gennaio 2004, n. 10.
6) Catechismo della Chiesa cattolica, Parte I, Capitolo I; Pio XII, enc. Humani generis, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 6, EDB, Bologna 1995, p. 647.
7) Catechismo della Chiesa cattolica, n. 400.
8) Ivi, n. 404.
9) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa cit., n. 206, p. 113.
10) Sum Theol, I-II, q. 99; Apostolicam actuositatem n. 8.
11) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Diligite justitiam. Miscellanea di studi in onore del Cardinale Renato Raffaele Martino, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2005.
12) A. Card. Nicora, Giustizia e pietà, sullo spunto di un’antica preghiera cristiana, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Diligite justitiam cit., pp. 96-108.
13) Ivi, p. 102.
14) Tutte le citazioni di questo paragrafo non diversamente specificate sono tratte dal paragrafo 28 della Deus caritas est.
15) Cfr G. Crepaldi, La carità sociale della Chiesa nella Deus caritas est di Benedetto XVI, in Id., Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa: percorsi, Cantagalli, Siena 2008, pp. 161-175.
16) J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p. 56.
17) Cfr G. Crepaldi, L’enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI e la questione sociale del nostro tempo, in Id., Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa: percorsi, Cantagalli, Siena 2008, pp. 177-189.
18) Spe salvi n. 35.
19) Ibidem.
20) Ivi, n. 39.
21) Ivi, n. 44.
22) Ibidem.
23) Perche «sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo» (Caritas in veritate n. 1).
24) Caritas in veritate n. 34.
25) «Dal pantano dell’incertezza, dell’incapacità di vivere, nessuno è in grado di tirarsi fuori da sé» (Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, dodicesima edizione con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2003, p. 41».
26) G. Crepaldi, Intervento alla Tavola rotonda su “L’attention au plus fragile, le respect de la personne dans son intégralité et son environnement: clé de voute ou pierre d’achoppement?”, Parigi 10 settembre 2008, in www.vanthuanobservatory.org
27) «Il principio e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» (Caritas in veritate n. 36).
28) «La carità non è un’aggiunta posteriore, quasi un’appendice a lavoro ormai concluso delle varie discipline, bensì dialoga con esse fin dal principio» (Caritas in veritate n. 30).
29) «Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore» (Caritas in veritate n. 30).

Nessun commento:

Posta un commento