martedì 9 novembre 2010

Il problema della sofferenza 2 - Il risentimento per la sofferenza inevitabile - Autore: Laguri, Innocenza  Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - Intervista a Francesco Botturi, Docente di antropologia filosofica, Università Cattolica.


Domanda:
In che senso dobbiamo tenere conto che la sofferenza è parte del soggetto umano, come è possibile reggere la domanda sulla sofferenza?

F. Botturi:
Parto dalla domanda sul significato. Perché la sofferenza? Quello che siamo arrivati a dire sino ad ora è una valutazione di insufficienza di come la cultura contemporanea, la mentalità corrente ci mette a confronto con questo problema. Innanzitutto perché, su questo sono molto d’accordo, è una cultura tecnica e psicologica, relativa, come dicevamo prima, che non aiuta a far spazio alla questione della sofferenza umana come un momento dell’esistenza, che l‘esperienza ci dice essere inevitabile. D’altra parte, in tutte le grandi culture il simbolo della nascita, del pianto del bambino o del dolore del parto della madre e della fatica del parto, è sempre un simbolo fondamentale, cioè si viene alla vita , il positivo per eccellenza, ma accompagnati dalla sofferenza, questo dovrebbe fare riflettere. E fa ben capire che la sofferenza è così all’origine della vita che non sarà nessuna tecnica che risolverà del tutto i problemi, né sarà neanche una distrazione emotiva che ci potrà salvare. Questo è il realismo cui bisognerebbe tornare, altrimenti non si sta nella vita ma si sta nel sogno o si sta poi nella pretesa delle cose. Tante volte in tante situazioni estreme, mi riferisco a casi ben noti della nostra cronaca nazionale e non solo, laddove la tecnica non regge più, tutto quello che si riesce a fare è eliminare il problema, ma siccome il problema è una persona si cerca di eliminare le persone. Non vogliamo essere pessimisti, ma non è vero che la sofferenza può essere tolta, e c’è un modo insufficiente di affrontarla che la moltiplica nelle persone e, seconda cosa, crea in loro uno stato d’animo, che non abbiamo ancora nominato, di risentimento, di ira. Direi che l'atteggiamento del “risentimento” è molto importante da capire e chiunque di noi lo può sperimentare se guarda dentro di sé. Facilmente siamo risentiti quando la vita presenta questa faccia sgradevole o a volte anche orribile. Si è così sprovveduti nei confronti della questione che l’unica cosa che si riesce a fare in ultima istanza, quando falliscono i nostri poveri mezzi, è quello di odiare ciò che capita, ma odiare ciò che capita, siccome capita a noi, vuol dire poi odiare noi, odiare gli altri. Quante volte la retorica dei casi pietosi nasconde un sentimento di insofferenza. Quante volte viene il dubbio, se si sente dire “per il suo bene, l’abbiamo soppresso”? Per il suo bene o perché non si riusciva più a sopportarne la visione, perché si è dominati da un risentimento interiore di fronte a quello che la vita dà e che non si non vorrebbe?
Si diceva “reggere la domanda”, mi pare una bella espressione. Una volta scoperto che la questione della sofferenza non è così facilmente risolvibile né tecnologicamente né tecnicamente né per emozioni psicologiche ma bisogna affrontarla, come reggere la domanda? Mi sembra una buona formula, la sofferenza è una domanda di senso, domanda di come sia possibile integrare, in una vita positivamente intesa, anche questo elemento. Come reggere questa domanda?

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