LA FAMIGLIA È UN BENE COMUNE - di Cristina Rolando, avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
ROMA, domenica, 12 settembre 2010 (ZENIT.org).- Al di là di qualsiasi argomentazione morale o teologica in favore di un tipo di famiglia piuttosto che di un altro, la proposta di vita matrimoniale e familiare fatta dal cristianesimo è grandemente produttiva di capitale sociale e deve essere, pertanto, difesa e favorita in questa sua capacità.
Rendere ragione di ciò significa riconoscere la sussistenza del principio di c.d. neutralità etica ma, al contempo, ammettere che non è possibile in natura una neutralità etica assoluta e totale dallo Stato[1].
Come ha scritto Martin Buber, «il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo – con – l’uomo»[2]. Con questa definizione l’Autore, rifiutando la concezione individualistica dell’essere umano, afferma, in modo del tutto evidente, che la relazione intersoggettiva è essenziale alla persona. Su queste basi, il bene comune può essere definito quale «relazione fra i beni singoli (o fra le parti del tutto considerato) che li coordina in modo che possano svilupparsi in una dinamica di reciproco arricchimento umano»[3]; perciò comune può ritenersi il bene compiuto dalle persone nella loro reciproca relazione, e fruito in essa. In altri termini, deve considerarsi comune quel bene costruito da agenti razionali che vantano stili di vita finalizzati ad edificarlo.
Si consideri, ad esempio, un pubblico ufficiale che abbia, nell’adempimento del proprio ufficio, un modus operandi clientelare: detta condotta, certamente, non induce nelle persone il senso dello Stato ma, al contrario, lo distrugge. Perciò, demolire il bene comune equivale a negare l’universo relazionale buono, il solo capace di stimolare una crescita sana della persona, di cui il senso dello Stato è dimensione essenziale. In definitiva, il riferimento al capitale sociale indica l’insieme dei beni che, nel suo complesso, determina il bene comune, ma designa anche i singoli beni che possono essere usufruiti senza essere usurati; per dirla in termini giuridici, si tratta di beni – e tali sono le sole cose che possono formare oggetto di diritti[4] – immateriali[5] e inconsumabili[6].
Esistono, quindi, stili di vita produttivi di capitale sociale mentre altri che non solo lo escludono alla radice, ma usurano e consumano quello esistente; inoltre, non possono essere equiparati, pena la progressiva erosione del bene comune.
Ora, poste le generali premesse, occorre fondarle ed argomentarle in ambito familiare.
La prospettiva della riflessione nonmuta. Esistono, infatti, stili di vita matrimoniale e familiare che concorrono alla produzione del capitale sociale quale insieme dei beni che costituiscono il bene comune, ed altri che invece lo distruggono.
La proposta cristiana appartiene al primo tipo enunciato. Ma in che cosa si sostanzia?
Per coglierne il senso occorre, intanto, riconoscere la veridicità di alcuni assunti. In particolare, che:
– il matrimonio è l’unione pubblicamente riconosciuta fra un uomo e una donna, indissolubile sia dall’interno sia dall’esterno, ed orientata alla generazione ed educazione della persona umana;
– l’unione è elevata a dignità di sacramento. Ma il termine elevare non contrappone il sacramento alla coniugalità: al contrario, conferisce a quest’ultima quella simbolicità che è fondamento stesso della fede cristiana;
– sussiste de jure un legame indissociabile e reciproco tra coniugalità e genitorialità: la prima ordina e orienta la seconda che, al contempo, trova fondamento nella prima;
– esiste un bene comune delmatrimonio e della famiglia: l’amore, la fedeltà, l’onore, la durata dell’unione coniugale fino alla morte. Questo stesso patrimonio condiviso è così importante proprio perché quanto più appartiene al singolo membro (della coppia) tanto più diventa comune. In definitiva, è l’esperienza di chi, esistendo, crea vere e buone relazioni interpersonali.
Ciò premesso, sorgono alcuni interrogativi che necessitano di risposte adeguate; in particolare, occorre chiedersi se la proposta di vita matrimoniale e familiare appena sintetizzata origini uno stile di vita finalizzato, in concreto, alla promozione del capitale sociale. In altri termini, la convivenza civile – società e Stato – esige un tessuto connettivo necessariamente costituito dalla famiglia e dal matrimonio, quale istituzione naturale definita dal cristianesimo?
Ragionando a contrario, la domanda diventa piuttosto evidente: è praticabile una società composta da sole norme procedurali e formali il cui scopo sia, unicamente, quello di assicurare una uguale autonomia degli individui?[7]
L’ipotesi sembra piuttosto remota e di difficile attuazione. È noto, infatti, che l’autonomia opera in due direzioni: autonomia da vincoli e autonomia nel realizzare quella idea di vita buona che si ritiene vera. In sintesi: autonomia da …, autonomia per …
Ma è anche innegabile, in quanto dato di esperienza, che una esistenza eccellente non può essere costruita senza gli altri, senza, cioè la partecipazione alla vita associata. Ed è proprio da tale constatazione che comincia a delinearsi il concetto o,meglio, il binario in cui essa (la vita associata) trova il proprio naturale svolgimento: la solidarietà e la sussidiarietà.
La solidarietà non è un mero sentimento di altruismo ed ancor meno una coercizione che, dall’Alto, vincola le parti. Si tratta, invece, della consapevole inter-dipendenza di ciascuno da ciascuno: il mio bene non è realizzabile contro il bene dell’altro o a prescindere dal bene dell’altro.
Ugualmente, la sussidiarietà non specifica un qualcosa di residuale o che appartiene ad altri rispetto a ciò che è mio, ma indica, in primis, l’esigenza di promozione (e tutela) di relazioni sociali tali da aiutare ciascuno (singoli e comunità) a svolgere i propri compiti. Invero, è solo sulla base di un tessuto connettivo solidale e sussidiario che viene assicurata la vera coesione sociale in cui l’autonomia e la libertà di ciascuno trova, nel rispetto di quella altrui, non un limite ma la condizione idonea a renderle veramente possibili.
La comunità matrimoniale (e familiare) diventa allora il luogo originario in cui imparare a praticare questo tipo di coesione sociale, il luogo della personalizzazione e socializzazione dell’uomo. La proposta cristiana, in quanto razionalmente argomentabile e quindi universalmente condivisibile, impedisce la riduzione della comunità coniugale (e familiare) a pura affettività e spontaneità, a mera contrattazione fra due diritti assoluti, supposti necessari, per la propria felicità individuale. Da qui la conclusione cui si giunge è ovvia: ad ogni livello, compreso quello statale, deve essere riconosciuto nella sua positività questo modello di vita coniugale e familiare.
Ma cosa significa in concreto? Forse esigere un astratto primato della famiglia sullo Stato o, peggio, una forma di confessionalità dello Stato?
Certamente no. Equivale, piuttosto, a rivendicare una posizione pienamente laica di promozione e difesa di quei valori relazionali che nella famiglia e nel matrimonio trovano fondamento, e che solo una precisa argomentazione razionale (e non di fede) può giustificare.
Ma quali sono i contenuti e gli indici di una politica che riconosca e favorisca un simile stile di vita?
Almeno quattro sono valutati, ad oggi, particolarmente urgenti:
– evitare qualsiasi forma, celata o manifesta, di equiparazione fra la famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio ed altre forme di convivenza;
– garantire il diritto ad una abitazione idonea alla conduzione di una vita familiare buona;
– tutelare l’esercizio di una paternità responsabile, sia nella trasmissione della vita che nell’educazione della prole;
– assicurare all’individuo la possibilità di conciliare il lavoro e la famiglia, due componenti realizzative della persona e del bene comune.
In definitiva, «occorre davvero fare ogni sforzo, perché la famiglia sia riconosciuta come società primordiale e, in un certo senso, “sovrana”! La sua “sovranità” è indispensabile per il bene della società.
Una Nazione veramente sovrana e spiritualmente forte è sempre composta di famiglie forti, consapevoli della loro vocazione e della loro missione nella storia.
La famiglia sta al centro di tutti questi problemi e compiti: relegarla ad un ruolo subalterno e secondario, escludendola dalla posizione che le spetta nella società, significa recare un grave danno all’autentica crescita dell’intero corpo sociale»[8].
Queste affermazioni, condivise dalla Dottrina Sociale della Chiesa, affermano «la cittadinanza della famiglia»[9] ravvisando la necessità di sostenere e soprattutto di favorire uno stile di vita familiare fondato su criteri di solidarietà e piena reciprocità, radicati non tanto sui diritti del singolo individuo quanto, piuttosto, su quelli relazionali della persona umana.
[1] Si vedano gli scritti di Carlo CAFFARRA, Omelia nella Solennità di San Petronio (4 ottobre 2005); Una vita giusta una vita buona: progetto sociale possibile? (13 gennaio 2006); Il cristiano nella città (20 gennaio 2006); Informazione e barbarie: se togliamo le radici della verità a che servono i mass media? (21 gennaio 2006).
[2] BUBER, La saggezza dell’uomo, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1990, 122.
[3] DONATI, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Roma, ed. AVE, 1997, 65
[4] Il riferimento è all’art. 810 c.c. ove sono beni (soltanto) le cose che possono formare oggetto di diritti, ossia quelle suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che perciò possono avere un valore. Si tratta della stessa nozione che si ritrova nell’art. 2082 c.c. ove l’attività di impresa viene riassunta nella classica formula della produzione o scambio di beni o di servizi.
[5] I beni oggetto di diritti si caratterizzano per la loro corporeità (materialità) e per la loro immaterialità. I primi sono le res quae tangi possunt, costitutive per i romani della proprietas poiché tale diritto si identificava con la res manifestando l’idea di appartenenza; sono, invece, res quae tangi non possunt tutti gli altri diritti che formano oggetto di negoziazione.
[6] I beni si distinguono in consumabili ed inconsumabili.Ma non bisogna lasciarsi ingannare dal significato comune dell’espressione consumabile, poiché non c’è cosa almondo che, per cause fisiche o naturali, non si alteri o non si deteriori, consumandosi perciò con l’uso (res quae usu consumuntur). I termini de quo devono, invece, intendersi in senso economico. Consumabili sono, appunto, quei beni che non possono prestare utilità all’uomo senza perdere la loro individualità (per esempio, le vettovaglie) o senza che il soggetto se ne privi (per esempio, il danaro); sono inconsumabili gli altri beni (per esempio, i vestiti) ancorché deteriorabili con l’uso. L’importanza della distinzione sta in questo: i beni consumabili, proprio perché l’utilizzo ne comporta la distruzione o l’alienazione,possono essere fruiti una sola volta; perciò non possono essere oggetto di quei rapporti con cui si concede ad altri il godimento del bene con l’obbligo di restituirlo
[7] La domanda pone la quaestio fondamentale sul vivere e con-vivere umano: qual è il fondo della realtà primordiale? L’uno irrelato o la comunione? L’incipit dell’umano è l’autonomia o l’amore erotico ed agapico?
[8] GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie, Gratissimam sane 17,11; EV 14/284.
[9] Cfr. DONATI, Famiglia e sussidiarietà: nuove politiche sociali che generano benessere sociale, in Welfare community [a cura di BELARDINELLI],Milano, Egea, 2005, 89.
* Cristina Rolando è avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
Ha pubblicato numerosi saggi e volumi, tra cui “Alimenti e mantenimento nel diritto di famiglia. Tutela civile, penale, internazionale” (Giuffrè 2008) e “Bioetica e persona. Quale rapporto?” (Edizioni Art 2009).
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