Anatomia del catastrofismo - I ricorrenti e ingiustificati allarmi planetari di Carlo Bellieni, July 28th, 2011, http://carlobellieni.com/
Negli ultimi dieci anni siamo stati bersagliati da avvisi di catastrofi mondiali, tanto gonfiate dai media quanto rapide a scomparire dalla memoria. Ora è toccato a quella causata da un ceppo di Escherichia Coli che ha infettato qualche centinaio di persone. L’epidemia, di cui non si conoscono le fonti di contagio, si è già arginata, eppure ha provocato ansia, crisi dei mercati alimentari e attriti tra Paesi europei che si accusavano a vicenda di averla provocata.
Assistiamo agli ultimi strascichi di questa infezione contenuta nel tempo e nello spazio (sono morte circa 40 persone, meno di quante ne muoiono per incidente automobilistico ogni giorno), ma i media hanno soffiato sul fuoco dell’allarmismo, usando termini roboanti, da «batterio-killer» a «mix genetico superaggressivo».
Non è la prima volta. Era già successo con la crisi mondiale della «mucca pazza» del 2001, la Sars del 2003, l’aviaria del 2005, l’influenza suina del 2009. Avrebbero tutte dovuto annientare il genere umano, stando a certi «esperti». Basti ricordare che per l’aviaria qualcuno aveva previsto dai 5 ai 150 milioni di morti («The New York Times», 28 marzo 2006), mentre le vittime sono poi state circa 300. Simile sorte per la febbre suina: ha fatto acquistare agli Stati milioni di dosi di vaccino che, essendo anch’essa meno letale di una influenza stagionale, sono rimaste poi in gran parte inutilizzate.
Nel saggio Bufale Apocalittiche Andrea Kerbaker scrive: «Negli ultimi dieci anni, a dar retta alle notizie che via via si affastellavano sui nostri media, avremmo dovuto morire decine di volte nelle maniere più strane. Pandemia, strage, apocalisse: sono questi i termini più ricorrenti sulla stampa all’inizio del terzo millennio». E André Glucksman sul «Corriere della Sera» del 12 giugno ha ironizzato: «Chi acquista verdura si espone alle nuvole dei batteri assassini. Le smentite scientifiche restano vane. Il principio di precauzione diventa il nostro vangelo».
La stampa scientifica s’interroga allarmata sulle sorgenti di questo catastrofismo. Come l’«International Journal of Risk and Safety in Medicine» nel gennaio 2011 e il «British Medical Journal», riportando che una commissione d’inchiesta è stata formata per valutare la gestione della «pandemia» di influenza suina.
Ma gli allarmismi soffiano evidentemente su un braciere ben pronto a infiammarsi, perché deve esistere un motivo per il quale un popolo razionale inizia a gridare alla catastrofe al primo allarme. Qual è dunque il terreno sociale fertile al catastrofismo?
Alcune psicosi sono scatenate dal fatto che certi individui reagiscono in modo irragionevole a uno stimolo avverso. Questo modo, secondo lo psichiatra Albert Ellis (1913-2007), consiste nello scatenarsi di ragionamenti assurdi: «Mi ha colpito un evento avverso, dunque il mondo è un disastro»; oppure: «Ho un infortunio, dunque io non valgo niente». È la cosiddetta ideazione catastrofica. Applichiamola a livello sociale, e vedremo che, analogamente ai malati di Ellis, la società postmoderna, quando arriva un evento avverso, invece di razionalizzarlo grida alla catastrofe.
Una plausibile spiegazione è che pensiamo che la vita sia accettabile solo se riusciamo a controllarne tutti i dettagli (da qui, tra l’altro, il diffuso desiderio di perfezione fisica): quando ce ne sfugge uno c’è chi corre razionalmente ai ripari, ma più spesso scatta la psicosi, talora su base collettiva.
In modo lungimirante nel 1989, il cardinale Joseph Ratzinger individuava l’origine di questa deriva verso il panico nella cultura dell’autosufficienza e della diffidenza verso l’altro da sé, nella quale in apparenza tutto è programmato e previsto: «Liberalismo e illuminismo vogliono insinuarci un mondo senza paura; promettono la totale messa da parte di ogni specie di paura. Essi vorrebbero eliminare ogni non ancora, ogni dipendenza dall’altro e la sua intima tensione. Questa ricerca di sicurezza si fonda sulla totale autoaffermazione dell’io che si nega al rischio di uscire da sé e di affidarsi all’altro » . E continuava: «Quando si propone di eliminare totalmente e senza residuo la paura, la paura repressa ricompare in molti travestimenti di un’angoscia fondamentale». Così oggi «germinano queste nuove angosce e assumono in molti modi già la forma di psicosi collettive» (Guardare Cristo). Già, un sistema tenuto insieme da posticce assicurazioni di felicità facilmente si sgretola. Passata dunque quest’ultima ondata di allarmismo mondiale, prepariamoci a vederne nuove e più frequenti.
Non è tollerabile quest’esplosione di panico a ogni allarme. Le autorità sanitarie internazionali dovrebbero vigilare sull’uso appropriato di termini come «epidemia» o pandemia», e sanzionare gli abusi. Ma non è senza responsabilità chi muove la cultura e la politica: è urgente togliere peso alle fobie del ricco occidente e indurlo a interessarsi delle malattie davvero epidemiche, che da sempre fanno strage tra i popoli poveri, e delle quali le nazioni industrializzate non hanno che una minima cognizione.
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