LA LIBERTA' DI AMY WINEHOUSE - di Alessia Affinito, 30 luglio 2011, http://www.riscossacristiana.it
Morire a 27 anni, forse per un cocktail di droghe, o per la loro improvvisa mancanza. Non sono chiare le circostanze che hanno determinato la fine di Amy Winehouse, stella della musica soul in vetta alle classifiche, nota anche per i ripetuti eccessi dovuti all’alcol e all’uso di sostanze stupefacenti. La dinamica, in casi del genere, importa e non importa. Conta conoscere il come, ma a volte conta di più capire il perché. Probabilmente le ragioni di questa morte precoce erano note solo alla diretta interessata, o a qualcuno dei suoi familiari o dei suoi amici più intimi.
Ma c’è un messaggio per chi aveva anche solo sentito parlare di questa donna che aveva ottenuto assai più di quanto un suo coetaneo, nel resto del mondo, potesse lontanamente sperare?
Si è a lungo parlato, nelle ore immediatamente successive alla notizia, degli affetti della
Winehouse, delle possibili delusioni all’origine di un finale inatteso. Un’unione fallita alla spalle, un nuovo compagno poco interessato al matrimonio, le ultime imbarazzanti esibizioni sul palco che avevano portato i manager ad annullare i concerti previsti. Certamente fattori che possono aver scatenato una volontà autodistruttiva dagli esiti disperati. Resta però un interrogativo: quella della Winehouse non è stata forse, fino in fondo, una vita libera? In altre parole: la sua tragica fine non è stata forse l’affermazione di una libertà assoluta, totale, portata all’estremo? E’ giusto porsi il problema, specie in un’epoca abituata a prospettare la completa determinazione di sé come unica fonte di senso. Ed è un vero peccato che l’argomento non sia stato sollevato in questi giorni, nelle tante occasioni sprecate per commentare banalmente i successi o le cattive amicizie della cantautrice inglese.
La Winehouse aveva una voce splendida e anche una gravissima forma di dipendenza da alcol e da droghe: poteva acquistarne in tranquillità e lo ha fatto. Non aveva problemi economici, né era tipo da nutrire scrupoli morali o religiosi al riguardo. Viveva in un paese liberale per definizione. E' stata la perfetta incarnazione di quello che si potrebbe definire un individuo che sceglie cosa fare della propria vita e lo fa, indipendentemente da tutto e da tutti. In questo senso, un modello. E modello lo è stata per un gran numero di persone, che affollavano i suoi concerti e che hanno sostato presso la sua abitazione alla notizia della morte.
Ma casi del genere obbligano ad essere meno superficiali. E’ sufficiente essere liberi per vivere? E per vivere non si intende qui “vivere bene”, ma sopravvivere. Basta cioè affermare con il proprio stile di vita, con le proprie scelte, che si è in grado di fare tutto ciò che si desidera e riuscire poi ad affrontare quello che Pavese chiamava il mestiere di vivere? La fine della Winehouse dice che non basta. Che di sola libertà si può anche morire. Quando è priva di scopo, quando essa stessa è il fine, quando è slegata da relazioni. Non che Amy Winehouse ne fosse priva, ma la sua vita si è spenta nella solitudine, ed è un dettaglio che significa qualcosa. Al di là della dipendenza che stupefacenti o abuso di alcol comportano, fino a diventare ingestibile per chi ne è vittima, il carattere tremendamente tragico di una tale morte è l’assoluta mancanza di senso della misura, che sta o cade insieme alla responsabilità. Responsabilità verso gli altri, anche della propria esistenza. Quando è questa ad essere rimossa, la libertà finisce per essere l’equivalente della peggiore schiavitù, cioè un inferno.
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