ANALISI DEL PROGETTO DI LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO NEL TESTO APPROVATO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI
1. I timori per una legge di legalizzazione dell’eutanasia.
La Camera dei Deputati ha approvato il progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento apportando notevoli modifiche al testo già licenziato dal Senato della Repubblica. Alcune di queste modifiche erano già state introdotte nel corso dell’esame in Commissione Igiene e Sanità, altre sono state, invece, approvate durante il dibattito in Assemblea.
Il Comitato Verità e Vita, dopo la conclusione dei lavori alla Camera, ha già espresso un giudizio sintetico, ribadendo la propria contrarietà all’approvazione di qualunque legge sul testamento biologico e riaffermando che una legge di questo tipo, se approvata definitivamente, sarebbe il secondo passo verso la legalizzazione dell’eutanasia, dopo il primo costituito dall’uccisione di Eluana Englaro autorizzata dai Giudici.
Occorre però un’analisi approfondita del testo del provvedimento: è probabile, infatti, che si tratti del testo definitivo della futura legge (difficilmente il Senato apporterà ulteriori modifiche). Il giudizio deve essere meditato e non affrettato o emotivo; d’altro canto, la denuncia delle leggi ingiuste, che permettono l’uccisione di milioni di vite umane nel nostro Paese, non può che utilizzare anche gli strumenti di analisi giuridica, per coglierne il contenuto effettivo (spesso nascosto da coloro che le promuovono) e capire gli effetti pratici prodotti nell’ordinamento giuridico e sulla vita delle persone e della società.
Dobbiamo chiarire, innanzitutto, che il timore rispetto a questo progetto non riguarda solo una legalizzazione dell’eutanasia consensuale, quella richiesta da colui che vuole morire, ma soprattutto di quella non consensuale: ci opponiamo ad una legge che permetterà (di diritto o di fatto) l’uccisione (anche mediante omissione di cure e terapie) di persone che non hanno chiesto di morire e che non sono in grado di opporsi alle decisioni che possono portarle a morte.
Le leggi o le decisioni contro la vita, fino ad ora, hanno legittimato uccisioni di questo tipo: dall’aborto volontario, alla fecondazione extracorporea, alla decisione dei giudici nei confronti di Eluana Englaro. Non solo: queste leggi e queste decisioni hanno fatto emergere i criteri per individuare le vittime: la malattia o le malformazioni (aborto “terapeutico” e fecondazione in vitro con selezione degli embrioni), lo stato di salute al di sotto di una “qualità della vita” accettabile, “degna di essere chiamata vita” (il caso Englaro). È facile individuare le ulteriori “categorie” di potenziali vittime, già colpite in altre parti del mondo: i neonati malati o disabili, gli anziani in stato di demenza, i disabili in stato di incoscienza, i malati di patologie inguaribili e progressive.
2. I principi proclamati dall’articolo 1.
L’articolo 1, intitolato “Tutela della vita e della salute” è rimasto quasi immutato rispetto al testo approvato al Senato: l’articolo proclama principi generali e ha lo scopo evidente di rassicurare coloro che difendono il diritto alla vita.
Ma ancora una volta si deve ribadire che le leggi ipocrite contengono sempre affermazioni di principio di contenuto opposto al loro reale contenuto: ben sapendo come la legge 194 del 1978 sull’aborto “tutela la vita umana dal suo inizio”, così come proclama, non possiamo certo esultare se il progetto di legge sulle DAT promette di garantire e tutelare la vita umana “anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere”!
Davvero definire la vita umana “diritto inviolabile e indisponibile” è un argine alle uccisioni fondate sul rifiuto di terapie salvavita? Sì, perché, che si trattasse di un diritto inviolabile e indisponibile era un dato da sempre pacifico, ma dottrina e decisioni giudiziarie hanno ripetutamente affermato che il rifiuto espresso contro una terapia salvavita non è superabile dai medici, cosicché la morte può giungere su richiesta dell’interessato sulla base del principio della disponibilità della salute, mantenendo fermo il principio dell’indisponibilità della vita… (vi sembra una distinzione da azzeccagarbugli? Beh, questo è lo stato dell’arte …).
E perché dovremmo rallegrarci se la legge ribadisce la vigenza delle norme del codice penale che vietano l’omicidio, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio (“La presente legge … vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio”)? Sappiamo bene che quelle norme penali – ingiustamente interpretate da giudici civili e penali, che le hanno svuotate dall’interno – non hanno impedito il suicidio assistito di Piergiorgio Welby, né hanno fatto argine alla volontà di Beppino Englaro di far morire la figlia.
Quanto al “divieto di ogni forma di eutanasia” (ribadito una volta di più nel testo approvato alla Camera dei Deputati): che portata ha se, nella legge, non si rinviene nessuna definizione di “eutanasia”? La morte procurata mediante sospensione di terapie o cure pretesa dal soggetto interessato oppure dai suoi legali rappresentanti deve considerarsi eutanasia?
3. Il divieto di accanimento terapeutico.
La prima norma che giustifica i timori si trova nell’articolo 1 lettera f: “La presente legge … garantisce che in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura”. Sembra una norma innocua, di buon senso, ma non lo è affatto: cerchiamo di capire perché.
In primo luogo: la legge stabilisce un divieto per il medico: a questo divieto corrisponde ovviamente un diritto del paziente a non subire trattamenti “straordinari non proporzionati”. In che modo si farà valere questo diritto? davanti ad un Giudice civile. Quando i radicali minacciano che, una volta approvata la legge, i Tribunali saranno pieni di cause intentate contro i medici, essi hanno in mente anche questa norma.
Quale sarebbe l’oggetto di questa causa? Il medico curante verrà citato in giudizio per contestare una terapia ancora in corso e per costringerlo a cambiarla o a farla cessare. Un giudice dovrà decidere sulle terapie erogate ai pazienti! Questo è l’effetto di avere trasformato una regola deontologica (quella che ciascun medico deve seguire in base ai principi della sua professione) in regola giuridica, stabilita per legge.
Chi potrà intentare la causa? Ovviamente il paziente, titolare del diritto; ma anche i suoi legali rappresentanti se si tratta di incapace: genitori di minori o tutori di interdetti. Come non ricordare Piergiorgio Welby (i giudici civili respinsero la sua domanda di sospendere le terapie, affermando che il suo diritto non era tutelato: ecco, ora lo sarà…) e Beppino Englaro (egli agiva come tutore della figlia interdetta, sostenendo che ogni terapia o cura prestata ad Eluana integrava un accanimento terapeutico…)? La legge normalizza due tipi di azione che molti avevano ritenuto al di fuori dell’ordinamento.
Non basta: chi sono i pazienti in stato di fine vita? La legge non fornisce alcuna definizione. Facciamola breve: è pacifico che i soggetti in cd. stato vegetativo (la condizione in cui si trovava Eluana Englaro) rientrano nella categoria; e come negare, ad esempio, che un anziano colpito da demenza non si trovi in stato di fine vita (in ogni caso morirà tra qualche anno…)?
Emerge una gravissima discriminazione: alcune categorie di pazienti non devono essere curati al meglio: le “condizioni cliniche” o gli “obbiettivi di cura” comportano il divieto di terapie straordinarie – quelle, cioè, che permettono alla medicina di avanzare ogni anno, scoprendo nuove terapie e raggiungendo nuovi risultati! E quali sono gli obbiettivi di cura per un soggetto in stato vegetativo persistente (“non tornerà mai più alla coscienza”) o per un vecchio malato di Alzheimer?
Concludiamo, quindi, su questo punto: lo scenario prevedibile è che altri Beppino Englaro promuovano cause contro i medici che curano altre Eluana Englaro, sostenendo che le terapie erogate sono sproporzionate, straordinarie, non adeguate agli obbiettivi di cura, tenuto conto delle condizioni cliniche. In queste cause (sicuramente ammissibili, alla luce del testo di legge) si tenterà, tra l’altro, di scardinare il divieto di sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali (di cui parleremo sotto), sostenendo che si tratta di terapie, se del caso mediante apposite eccezioni di costituzionalità (pensate che non si troveranno Giudici civili pronti a sollevarle?).
L’effetto sui medici volenterosi si avrà, comunque, già prima: basterà la minaccia di promuovere una causa …
Il tutto – si noti bene – non ha niente a che vedere con l’accanimento terapeutico, che riguarda soltanto i pazienti terminali, prossimi alla morte.
4. Il principio del consenso informato.
Identico al testo approvato al Senato è rimasto il principio del consenso informato: “La presente legge … riconosce che nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dal consenso informato nei termini di cui all’art. 2 …” (articolo 1 lettera e). L’articolo 2 stabilisce che “salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente …” e aggiunge che “il consenso informato al trattamento sanitario può essere sempre revocato, anche parzialmente”.
Riflettiamo su questo principio che, ancora una volta, sembra dettato dal buon senso.
Ogni trattamento sanitario erogato contro o senza il consenso del paziente sarà illegittimo. Il medico, cioè, non solo non potrà superare il rifiuto del paziente verso certe terapie (si pensi al caso assai noto della donna che, malata di cancrena, rifiutò espressamente un’amputazione), ma non potrà attivarsi ed agire in tutti i casi in cui, in precedenza, l’interessato non avrà manifestato esplicitamente il suo consenso (nel testo approvato al Senato addirittura si imponeva la forma scritta del consenso). Se ci pensiamo, i casi sono innumerevoli: sono i casi in cui il medico agisce e cura facendo leva sulla fiducia manifestata nei suoi confronti dal paziente, presumendo il consenso alle terapie che effettua e agendo al meglio secondo la sua coscienza e la sua professionalità.
Viene cambiata radicalmente la natura del rapporto medico – paziente e, in definitiva, viene stravolto il fondamento stesso dell’agire dei medici: non più professionisti che tutelano la salute dei loro pazienti, che si affidano a loro sulla base di un comune obbiettivo, e che svolgono una funzione pubblica (perché, dice l’articolo 32 della Costituzione, la salute degli individui è “interesse della collettività”); piuttosto soggetti che agiscono “a comando”: fanno ciò che il paziente chiede, non fanno ciò che il paziente non chiede o rifiuta.
E così, la norma che permette che il consenso prestato possa essere sempre revocato comporta l’obbligo del medico di interrompere terapie – anche se utili – sulla base della sola richiesta del paziente.
Questa radicale mutazione dell’arte medica è già in atto da tempo e, con queste norme, diventa regola dell’ordinamento giuridico; essa consegue (in assoluta sintesi) al prevalere di un individualismo libertario, secondo cui ogni desiderio diventa un diritto e il mancato soddisfacimento del desiderio viene percepito come “malattia”: cosicché i medici che eseguono l’aborto volontario, usando le proprie tecniche per uccidere un innocente, agiscono formalmente per scongiurare un “pericolo alla salute psichica della donna” (quindi per “curare”), ma, in realtà, attuano la mera volontà della donna di abortire; mentre i tecnici della fecondazione in vitro producono, selezionano, congelano, sopprimono essere umani senza curare alcuna patologia, ma fregiandosi dell’essere le tecniche “medicalmente assistite”.
Scendiamo al tema dell’eutanasia: il principio per cui il consenso informato è “fondamento di legittimazione dell’attività medica” è affermato solennemente nella sentenza della Cassazione che ha dato il via libera alla soppressione di Eluana Englaro; mentre la sentenza penale che prosciolse Mario Riccio – colui che aveva ucciso Piergiorgio Welby interrompendo la respirazione artificiale – affermò esplicitamente che il consenso poteva essere revocato e che il medico era obbligato ad interrompere la terapia.
Vediamo, quindi, che il principio affermato dal progetto di legge ha molto a che fare con la legalizzazione dell’eutanasia; è un principio che toglie ogni libertà di azione ai medici volenterosi e spinge la classe medica a “lavarsi le mani” di fronte ai problemi (“non ha dato/ha revocato il consenso: se muore non è colpa mia, non ci posso fare nulla”); esso favorisce, fra l’altro, l’azione di quei medici fin troppo abili ad orientare le decisioni del paziente nella direzione da essi voluta (sono note le statistiche secondo cui, nei paesi in cui il suicidio assistito è legale, le richieste dei pazienti aumentano se il medico che li ha in cura è favorevole all’eutanasia).
Si trattava di una soluzione obbligata? Niente affatto: la Costituzione, infatti, stabilisce solo che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: quindi impedisce trattamenti in caso di rifiuto espresso del paziente (salvo imporli per esigenze di salute pubblica), ma non richiede affatto che tutti i trattamenti sanitari siano preceduti da un consenso espresso.
L’unica eccezione prevista dal progetto di legge (fatti salvi i trattamenti sanitari obbligatori per problemi di malattia mentale) è molto ristretta: il consenso non è richiesto “quando ci si trovi in una situazione di emergenza, nella quale si configuri una situazione di rischio attuale e immediato per la vita del paziente” (articolo 2 comma 9, modificato dalla Camera dei Deputati); in sostanza, il medico dell’ambulanza che interviene per un incidente stradale (o casi simili) e trova persone incoscienti in pericolo di vita potrà (e dovrà) agire per salvargli la vita (verrebbe da dire: ci mancherebbe altro…).
Ma in tutti gli altri casi i medici non potranno agire in alcun modo senza avere acquisito in precedenza un consenso espresso e dovranno interrompere le terapie se il consenso sarà revocato (potranno essere interrotte anche le terapie iniziate dal medico dell’ambulanza di cui abbiamo parlato …): il caso Welby viene, quindi, esplicitamente legalizzato dal legislatore (anche perché, come vedremo, la ventilazione artificiale viene considerata trattamento sanitario).
Il consenso dovrà venire dal paziente; ma, se egli è minorenne o incapace, dai suoi rappresentanti legali: e su quest’ultimo inciso si potrà comprendere la effettiva portata della nuova legge.
5. Il consenso informato per interdetti e minorenni.
Cosa ha a che fare l’obiettivo sbandierato: “Mai più un’altra Eluana Englaro!” con una regolamentazione del consenso ai trattamenti sanitari a minorenni e interdetti? Per chi ha sostenuto l’ingiustizia dell’uccisione di quella donna disabile, si tratta di argomenti lontani tra loro: Eluana Englaro fu uccisa mediante la sospensione di quelli che non erano trattamenti sanitari; e in nessun modo poteva darsi il problema di un consenso o rifiuto attuale a quei trattamenti, visto che la giovane era in stato di incoscienza.
Eppure – nel silenzio “assordante” anche da parte dei cattolici favorevoli all’approvazione della legge – questo tema è stato presente fin dall’inizio nei progetti di legge ed è stato oggetto (anche nella discussione in Assemblea alla Camera) di ripetute modifiche, in un senso o nell’altro: il fatto è che negli interdetti e nei minorenni si rinvengono molti “candidati” ad un’azione eutanasica, come abbiamo premesso: e quindi l’interesse verso questo tema è inevitabilmente alto.
Ricordiamo: l’eutanasia non è altro che l’uccisione “pietosa” di una persona decisa da un’altra persona; come possono i suoi fautori perdere l’occasione di stabilire esplicitamente che, in certi casi, qualcuno ha il potere di imporre la cessazione o la non attivazione delle terapie che potrebbero salvare la vita di soggetti incapaci?
E allora: se riflettiamo che a Beppino Englaro è stato attribuito dai Giudici il potere di far morire la figlia (che era stata interdetta) in quanto tutore, come non sorprendersi che, in un progetto di legge che – si sostiene - vuole difendere la vita dei più deboli, si stabilisca espressamente: “In caso di soggetto interdetto, il consenso informato è prestato dal tutore che sottoscrive il documento” (articolo 2 comma 6)?
Nel caso degli interdetti, quindi, il quadro di partenza è il seguente: senza previo consenso del tutore il medico non può iniziare alcun trattamento sanitario sull’interdetto; se il consenso del tutore viene meno il medico deve interrompere il trattamento sanitario in atto sull’interdetto.
Prima di approfondire questo quadro, una riflessione: anche sulla base di queste norme, che stabiliscono divieti (“nessun trattamento sanitario può essere attivato”) e quindi creano corrispondenti diritti, i tutori potranno agire in giudizio nei confronti dei medici per contestare – questa volta sotto il profilo della mancanza di consenso – le terapie erogate agli interdetti. In un quadro del genere Beppino Englaro (che, fumosamente, era stato riconosciuto dalla Cassazione come “voce dell’interdetta”) agirebbe in nome e per conto della sua rappresentata, senza alcun timore di vedersi respinto il ricorso per mancanza di legittimazione.
Approfondiamo il quadro sulla base di due domande: i tutori possono rifiutare il consenso anche a terapie salvavita? Quali poteri e doveri hanno i medici rispetto al rifiuto o alla revoca da parte del tutore del consenso a terapie salvavita? Queste domande permettono di mettere da parte questioni secondarie (come il consenso a terapie ordinarie, ad esempio di tipo odontoiatrico) e di concentrarsi sulla possibile eutanasia degli incapaci.
Il progetto di legge stabilisce che “la decisione di tali soggetti riguarda anche quanto consentito dall’articolo 3”; l’articolo 3 è la norma che regola i contenuti e i limiti della dichiarazione anticipata di trattamento. In base a questo richiamo il tutore (ma anche l’amministratore di sostegno) potrà “esplicitare” “la rinuncia … ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti terapeutici in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale” (articolo 3 comma 3 come modificato dalla Camera dei Deputati).
Puntiamo l’attenzione sulla parola “ogni”: il tutore potrà rifiutare, quindi, tutti i trattamenti terapeutici erogati all’incapace. La risposta alla prima domanda, quindi, è sicuramente affermativa: il tutore può rifiutare il consenso anche a terapie salvavita.
L’unico limite è stabilito dal comma 5: “alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita … Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”: e, appunto, poiché il potere dei tutori è ritagliato sul contenuto delle DAT, nemmeno loro potranno pretendere (come fece Beppino Englaro) che nutrizione e idratazione artificiale siano sospese all’interdetto.
Ecco che emerge con evidenza un enorme potere di vita e di morte attribuita ai tutori e agli amministratori di sostegno sui loro assistiti; si concretizza il rischio di eutanasia legale: l’incapace incosciente potrà essere lasciato morire non curandolo adeguatamente sulla base della “decisione” (si noti il vocabolo utilizzato dal legislatore) del tutore o dell’amministratore di sostegno!
Ma i medici non possono fare niente? E il tutore deve rendere conto a qualcuno dei criteri utilizzati per le sue decisioni?
La Camera dei Deputati ha abrogato l’articolo 8 che, nel caso di rifiuto del consenso da parte dei rappresentanti legali degli incapaci, stabiliva che i medici, per poter curare il paziente, dovessero ottenere l’autorizzazione da parte del giudice tutelare. Si tratta di abrogazione proposta da parlamentari orientati ad una maggiore difesa della vita e, quindi, va apprezzata per il principio che vuole affermare: “se il paziente deve essere curato perché rischia di morire, il medico lo cura disinteressandosi di consenso o di autorizzazione!”.
Ma questo principio è garantito dal progetto? Vengono in evidenza due norme: quanto ai criteri seguiti dal tutore, il progetto prescrive che “la decisione … è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del soggetto incapace” (articolo 2 comma 6). Diciamo subito che si tratta di una garanzia debolissima contro decisioni di tutori in senso eutanasico: per contestare queste decisioni, infatti, i medici (oppure qualcun altro interessato) dovrebbero far causa al tutore; in caso contrario non potrebbero che prendere atto della “decisione” di non prestare il consenso; che poi qualche pubblico ministero vada a sindacare i criteri seguiti dal tutore per negare il consenso a terapie salvavita dopo la morte dell’interdetto è possibilità che non interessa particolarmente …
Più efficace potrebbe essere invece la seguente norma (modificata dalla Camera dei Deputati): “Per tutti i soggetti interdetti o inabilitati il personale sanitario è comunque tenuto, in assenza di una dichiarazione anticipata di trattamento, a operare avendo sempre come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del paziente” (articolo 2 comma 8).
Come si vede, si stabilisce un obbligo del personale sanitario (e quindi, in primo luogo dei medici): è importante, perché la garanzia contro l’eutanasia per omissione di terapie è effettiva solo se i medici vengono obbligati a salvare la vita dei pazienti, con conseguente responsabilità penale per omicidio in caso di morte del paziente non curato. Se non si afferma l’esistenza di un dovere giuridico di questo tipo, i medici favorevoli all’eutanasia possono concordare con la decisione dei tutori di non apprestare le cure necessarie all’incapace e, quindi, possono lasciar morire il paziente senza correre alcun rischio.
La norma, però, pur apprezzabile, lascia un quadro giuridico molto vago: non stabilisce affatto che, quando l’omissione di terapie può portare alla morte il paziente, “il consenso informato al trattamento sanitario (del tutore) non è richiesto” (come invece viene stabilito per i casi di emergenza).
Insomma: i medici devono sempre curare i pazienti incapaci che rischiano di morire quando i loro rappresentanti legali rifiutano il consenso?
Il fatto che ciò non sia stato stabilito espressamente non può che far temere sviluppi (anche giurisprudenziali) in senso contrario alla vita.
Anche la disciplina sul consenso informato al trattamento sanitario dei minori è stata modificata alla Camera dei Deputati. L’articolo 2 comma 7 ora recita: “Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela dopo avere attentamente ascoltato i desideri e le richieste del minore. La decisione di tali soggetti è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della vita e della salute psicofisica del minore”. Anche per i minori è stato cancellata la previsione della necessità di ricorrere al giudice tutelare in caso di mancato consenso. Inoltre – a differenza degli interdetti – non viene richiamata la disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il quadro che ne esce – a prescindere dalle intenzioni dei parlamentari che hanno proposto le modifiche – è preoccupante. La norma, in sostanza, dice: decidono i genitori (tranne i casi di urgenza, che valgono anche per i minori); non pone limiti al tipo di decisioni che essi possono prendere; non prevede in alcun modo che i medici possano disapplicare le decisioni dei genitori.
L’unico vincolo a queste decisioni è costituito dall’obbligo per i genitori di adottarle avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della vita e della salute psicofisica del minore: ma, non essendo stabilita l’inefficacia del loro rifiuto di terapie salvavita, non sorge nemmeno il conseguente obbligo per i medici di eseguirle ugualmente.
Se la norma non stabilisce un sistema di controllo efficace sulle decisioni, è inutile (e ingannevole) stabilire limiti o criteri per chi le deve adottare; pensiamo al regime dell’aborto volontario nei primi 90 giorni stabilito dalla legge 194: in teoria la legge permetterebbe l’aborto solo in certi casi (che vengono elencati); in realtà l’aborto è permesso sempre, perché il meccanismo creato dal legislatore non permette alcun controllo sulla decisione della donna.
Non sorprenda questa insistenza sull’eutanasia dei minorenni: l’uccisione dei neonati prematuri a rischio di disabilità è teorizzata ed attuata in molti Paesi (si ricordi il tristemente famoso “Protocollo di Groningen”); la strada più semplice per introdurla nel nostro Paese è quella di attribuire ai genitori (adeguatamente consigliati da certi medici: “potrebbe sopravvivere, ma forse resterebbe handicappato …”) la decisione finale sulla prosecuzione delle terapie intensive neonatali.
Ecco, in definitiva, che quel principio del consenso informato, apparentemente principio di buon senso, declinato in concreto, non apre spiragli, ma piuttosto rischia di spalancare porte a decisioni eutanasiche prese da legali rappresentanti di incapaci (spesso su suggerimento di certi medici).
6. Il divieto di sospensione di alimentazione e idratazione artificiali.
Abbiamo già fatto riferimento alla norma dell’articolo 3 comma 5 che ora stabilisce: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13/2/2006, alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente in fase terminale i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo”.
Si tratta della norma ispirata dal caso Englaro, diretta giustamente ad impedire che altri disabili vengano fatti morire di fame e di sete. L’Assemblea della Camera ha migliorato la norma, limitando esattamente l’eccezione ai pazienti in fase terminale, cioè prossimi ad una morte imminente e inevitabile: solo in questa condizione, infatti, talvolta il corpo morente rifiuta alimenti e liquidi che, quindi, il medico deve poter sospendere per permettere una morte dignitosa.
La domanda cruciale è: reggerà questa norma di fronte ai Giudici e alla Corte Costituzionale? Abbiamo visto che sarà facile promuovere cause contro i medici e in queste cause potranno essere sollevate questioni di costituzionalità.
Vi sono tre motivi per temere che questa norma di civiltà (che non a caso richiama una convenzione internazionale) cada o venga “ammorbidita” fino a renderla priva di effettivo contenuto.
In primo luogo la natura di trattamento terapeutico dell’alimentazione e idratazione artificiale (come tale rifiutabile dall’interessato o dai suoi rappresentanti legali) è oggettivamente discussa, sia a livello scientifico che giuridico; a livello giuridico, d’altro canto, la Cassazione nel caso Englaro ha già affermato trattarsi di trattamenti sanitari. Se riprendiamo le veloci riflessioni sul ruolo dei medici, vediamo che sono definiti “terapeutici” l’aborto volontario o la fecondazione in vitro: la riflessione sulla sostanza dell’atto (“è nutrimento, non è terapia”) fatica, quindi, a farsi strada.
In secondo luogo il divieto di sospendere alimentazione e idratazione artificiali si pone come eccezione in un quadro, disegnato dal progetto di legge, di assoluta disponibilità per l’interessato o per i suoi legali rappresentanti di tutti i trattamenti sanitari. In sostanza: se io posso decidere (per me o per i miei rappresentati) su tutto, perché non potrei decidere anche su questo aspetto? Se posso rifiutare terapie salvavita, perché non posso rifiutare “alimentazione salvavita”?
Infine, e soprattutto: la norma è debole perché non menziona l’obbligo di mantenere anche la respirazione artificiale.
Qui, a parere di chi scrive, si può toccare con mano il compromesso su valori non negoziabili: che si tratti di sostegno vitale, anche se fornito con mezzi e strumenti di carattere sanitario, può essere sostenuto con i medesimi argomenti riguardanti alimentazione e idratazione forniti per via artificiale, perché ciascuno di noi, per vivere, deve essere nutrito, bere e respirare. Non solo: si tratta di argomento da tempo proposto e discusso anche alla Camera dei Deputati; ma senza alcun esito, così stabilendosi il principio che la respirazione artificiale in quanto trattamento sanitario, può essere rifiutato e di essa può disporsi la sospensione.
Ma questo diversa regolamentazione delle diverse forme di sostegno vitale rischia di far apparire la norma sull’alimentazione e idratazione artificiale, non solo un’eccezione, ma un’eccezione illogica, irragionevole e quindi illegittima.
La giurisprudenza civile e costituzionale sulla legge 40 sulla fecondazione artificiale ha ampiamente dimostrato quale scarsa resistenza abbiano le regole e i divieti fondati sui compromessi.
7. Le dichiarazioni anticipate di trattamento
Le modifiche apportate dalla Camera alla disciplina del progetto Calabrò sono state davvero rilevanti. Giunti a questo punto dell’esame del progetto, tuttavia, possiamo comprendere che le DAT non sono davvero centrali nella regolamentazione complessiva, in particolare rispetto ai timori di una legalizzazione dell’eutanasia.
La Camera dei Deputati ha scelto con decisione la strada della non vincolatività delle Dichiarazioni Anticipate di trattamento. La parola chiave per definire il contenuto delle DAT è “orientamenti”: in particolare, proprio con riguardo alla posizione del medico curante rispetto a tale elaborato, significativa è stata la modifica dell’art. 7 comma 1: il testo approvato dal Senato faceva riferimento alle “volontà espresse” nelle DAT, quello modificato dalla Camera rettifica l’espressione con quella di “orientamenti espressi”; analoga modifica è stata apportata nel comma successivo, sostituendo questa volta l’espressione “indicazioni” (del dichiarante) sempre con “orientamenti”.
Coerentemente a questa modifica, è stata eliminata la possibilità, per il fiduciario nominato nelle DAT, di instaurare una controversia contro il medico curante per far rispettare le disposizioni anticipate (abrogazione dell’articolo 7 comma 3). La figura del fiduciario, quindi, viene ad essere depotenziata, anche se resta l’unico soggetto autorizzato ad interagire con il medico, è legittimato a richiedere al medico ed a ricevere dal medesimo ogni informazione sullo stato di salute del dichiarante (precisazione aggiunta alla Camera) e può quindi, “controllare” l’operato dei medici: ma – modifica fondamentale apportata dalla Camera – il medico curante, qualora non intenda seguire gli orientamenti espressi dal paziente nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, è soltanto tenuto “a sentire il fiduciario” e a “esprimere la sua decisione motivandola in modo approfondito e sottoscrivendola sulla cartella clinica”. (Vedremo subito dopo le perplessità che sorgono su questa ricostruzione).
Un’altra scelta della Camera è stata quella di limitare l’ambito di applicazione delle DAT: a seguito della modifica dell’articolo 3 comma 6, infatti, “la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa sotto-corticale e, pertanto, non può assumere decisioni che lo riguardano”. Questa condizione è accertata da un collegio medico appositamente formato.
Nell’ottica del timore della legalizzazione dell’eutanasia, peraltro, questa restrizione non tranquillizza: il soggetto potrebbe essere stato interdetto assai prima e quindi, se le DAT non trovano applicazione, saranno le decisioni del tutore ad esserlo: e si sono visti i rischi connessi.
Veniamo alle perplessità: se davvero le DAT contengono solo “orientamenti” che il medico può seguire o meno, con il solo onere di motivare le sue decisioni, che senso ha mantenere tutto l’apparato e tutta la regolamentazione conseguente? Perché, ad esempio, se il valore è davvero questo, spendere soldi per istituire il Registro Nazionale delle dichiarazioni anticipate di trattamento (articolo 9)?
Perché, soprattutto, negare ogni portata a dichiarazioni rese in forma diversa (articolo 4 comma 2: “Eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla presente legge non hanno valore e non possono essere utilizzati ai fini della ricostruzione della volontà del soggetto”)? Pensiamo quanto è difficile manifestare con precisione e con completezza il nostro pensiero con un atto scritto e a persone a noi estranee; se davvero dovessimo manifestare i nostri “orientamenti” e i nostri desideri su come essere curati quando e se ci troveremo in una condizione di incoscienza, lo faremmo molto meglio “a voce”, parlando con i nostri parenti più stretti, o con il coniuge o con l’amico più caro: ma la legge ci imporrà di firmare un atto scritto e di farlo “esclusivamente” presso il medico di medicina generale che contestualmente le sottoscriverà. Per di più quell’atto scritto avrà valore solo per cinque anni e, quindi, dovrà essere rinnovato ogni quinquennio.
Ecco che le perplessità sul valore soltanto “orientativo” delle DAT aumentano: approfondiamo l’argomento analizzando il contenuto delle DAT così come descritto dall’articolo 3, anch’esso modificato. Il primo comma così delimita il contenuto: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento il dichiarante, in stato di piena capacità di intendere e di volere e di compiuta informazione medico-clinica, con riguardo ad una futura perdita permanente della propria capacità di intendere e di volere, esprime orientamenti e informazioni utili per il medico, circa l’attivazione di trattamenti terapeutici, purché in conformità a quanto prescritto dalla presente legge”; il comma 4 specifica che il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di omicidio volontario, omicidio del consenziente e aiuto al suicidio; come si è già anticipato, “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento” l’alimentazione e l’idratazione per via artificiale (si è già visto come questa specificazione comporti che, a contrario, nelle DAT può essere “espresso l’orientamento” circa la ventilazione artificiale).
Come si inquadra, allora, il comma 3, già ricordato: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamento terapeutico in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”?
Questa “rinuncia” è un “orientamento”, che quindi il medico può non attuare, o ha un valore diverso? Il medico potrà – anzi: dovrà – effettuare i trattamenti terapeutici cui il dichiarante ha “rinunciato”?
Sembrano fondati i timori che, in sede di attuazione, la “rinuncia” sarà ritenuta cosa diversa da tutti gli altri “orientamenti”. In primo luogo spinge verso questa soluzione l’avere previsto questa ipotesi in un comma diverso da quello generale. In secondo luogo il significato della parola “rinuncia” è molto più vicino alla espressione “rifiuto” piuttosto che a “orientamento”: “rinuncia” e “rifiuto” rispondono ad un’alternativa “secca”, sì o no, “questa terapia la faccio o non la faccio, la voglio o non la voglio”; “orientamento”, invece, comprende una scala di “grigi” (“vorrei essere curato solo con le erbe”, “non vorrei subire amputazioni se non strettamente necessarie” ecc.), rispetto alle quali è ben comprensibile che il medico mantenga la sua libertà e discrezionalità (“ti vorrei curare con le erbe, ma per questa patologia non ci sono medicinali adeguati” ecc.).
Ricordiamo il quadro iniziale: il medico può agire solo se è stato espresso il previo consenso del paziente al trattamento, altrimenti non può e non deve farlo; ecco: così come il rifiuto espresso dal paziente cosciente (o dai legali rappresentanti degli incapaci) rende il medico non legittimato ad intervenire, si sosterrà che la rinuncia esplicitata nella DAT con riferimento ad ogni trattamento terapeutico realizzi un quadro identico: la mancanza di legittimazione del medico ad intervenire.
Del resto nessuna norma sancisce esplicitamente l’inefficacia di DAT che contengano la “rinuncia” a tutti i trattamenti terapeutici, anche salvavita: non è certamente sufficiente a questo fine il disposto dell’articolo 4 comma 6 che stabilisce che “in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica”: la rinuncia ai trattamenti sanitari salvavita può non comportare affatto un “pericolo di vita immediato”, ma una morte conseguente ad un processo patologico non curato di una certa durata.
Un’altra norma sembra confermare l’interpretazione di un efficacia vincolante della rinuncia ai trattamenti salvavita espressa nelle DAT; l’abbiamo già analizzata in precedenza, ma ora la rileggiamo per il suo riferimento alle dichiarazioni anticipate: “Per tutti i soggetti interdetti o inabilitati il personale sanitario è comunque tenuto, in assenza di una dichiarazione anticipata di trattamento, a operare avendo sempre come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del paziente” (articolo 2 comma 8).
La norma ci dice che, quando vi è una DAT, medici e infermieri non sono tenuti ad operare avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della vita del paziente: questo scopo, evidentemente, soccombe rispetto a quelli indicati nella dichiarazione; se, quindi, il dichiarante avrà chiesto di essere lasciato morire rinunciando ad ogni trattamento terapeutico, il personale sanitario non dovrà andare contro alle sue disposizioni.
In definitiva, anche con riguardo alle DAT, le modifiche apportate alla Camera non permettono di tranquillizzare chi è contrario all’eutanasia: non solo per il quadro piuttosto confuso che è uscito dai lavori parlamentari, ma anche per la considerazione che quel meccanismo, che avrà il sigillo dello Stato, non potrà che facilitare spinte ulteriori (anche in questo caso, probabilmente di tipo giurisprudenziale) verso una vincolatività per i medici, sia del rifiuto di terapie salvavita, sia della rinuncia all’alimentazione e idratazione artificiale.
Perché il mondo prolife è contrario a questi effetti? Per due motivi: essi sanciscono il principio della disponibilità della vita (di fatto, al di là delle proclamazioni di principio); inoltre il meccanismo creato non garantisce nessuna libertà e nessuna informazione effettive a colui che, in stato di completo benessere o, al contrario, a colui che è gravato dalla sensazione di “essere di troppo”, si troveranno a sottoscrivere un documento (magari dattiloscritto) senza sapere cosa succederà in futuro e senza comprendere fino in fondo il contenuto della loro dichiarazione.
Pensate davvero che la legge, nel disporre che la DAT sia firmata “in stato di piena capacità di intendere e di volere e di compiuta informazione medico-clinica” preveda qualche meccanismo per garantire che avvenga davvero così?
8. Meglio nessuna legge
Se ripensiamo alla parola d’ordine che spinge i promotori del progetto di legge – “Mai più un’altra Eluana Englaro!” – dobbiamo concludere questa analisi con la constatazione che: 1) la legge non garantisce affatto l’obbiettivo di impedire altre sentenze come quelle che permisero l’uccisione di Eluana Englaro; 2) la legge costruisce nuovi “gradini” dai quali i fautori (palesi od occulti) dell’eutanasia – consensuale e non consensuale – potranno cercare (con ottime probabilità di riuscita) di raggiungere ulteriori risultati.
Meglio nessuna legge, quindi, se davvero non è possibile approvare un testo che si limiti a vietare la sospensione dei sostegni vitali a coloro che non sono in grado di provvedere a se stessi.
Certo: sappiamo che i fautori dell’eutanasia hanno nella propria faretra altre frecce (alcune già scagliate, come i testamenti biologici comunali o i decreti sugli amministratori di sostegno), altri casi pietosi da mostrare, altre morti in diretta da esibire, altre menzogne da raccontare.
Dovremo combattere colpo su colpo a questi tentativi, e dovremo fare opera educativa per diffondere il rispetto della vita debole e malata: ma, almeno, non diamo un aiuto ai fautori della morte!
Giacomo Rocchi
Nessun commento:
Posta un commento