Rebecca e Lucia fra dubbi e certezze di Tommaso Scandroglio, 22-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Lucia e Rebecca hanno un cuore solo. Un cuore solo e fegato e intestino fusi insieme. Due persone in un corpo solo. La vicenda delle piccole gemelline siamesi nate qualche giorno fa all’ospdale Sant’Orsola di Bologna ha suscitato non solo profonda commozione tra medici, operatori sanitari e gente comune, ma anche complicati dilemmi etici. Che fare? Intervenire per dividerle oppure lasciarle unite finché morte - è proprio il caso di dirlo - non le separi?
Un rebus ma che forse si può risolvere. Il caso è complesso e qui vogliamo solo offrire qualche criterio di giudizio senza la pretesa di fornire una risposta a quesiti prima accennati che potesse fregiarsi del crisma della verità. Avviciniamoci ora al caso delle due gemelline per gradi, illustrando vari scenari possibili e le relative soluzioni eticamente percorribili.
Separare non separare. Prima ipotesi: con la separazione c’è certezza o buone probabilità che entrambe possano vivere. In questo caso non ci sarebbero dubbi sulla liceità dell’intervento. Caso opposto: se vengono separate ci sarebbe la certezza o l’alta probabilità che entrambe muoiano, ma se rimangono unite invece potranno vivere a lungo. Tale eventualità obbligherebbe a non intervenire per la separazione. Terzo caso: sia la separazione che la non separazione porterà alla morte. Di fronte a questo scenario l’unica strada percorribile sarebbe quella dell’astensione da ogni intervento e del doveroso accompagnamento alla morte delle gemelline che insieme sono nate e insieme si spegneranno. Nessuno di questi tre casi interessa la vicenda di cui ci stiamo occupando.
O muoiono entrambe o una si salva. Il caso di Lucia e Rebecca non entra negli esempi prima esposti. Infatti se operate al fine di dividerle una morirà ma l’altra con il 20% di possibilità potrà salvarsi. La soluzione poi di lasciarle unite porterà alla morte addirittura di entrambe: un solo cuore, persino malformato, sta facendo infatti il lavoro di due cuori. Dunque che fare? Risposta: è doveroso sotto il profilo morale tentare l’intervento di separazione anche se, con certezza, una delle due gemelline morirà.
Perché è moralmente lecita questa decisione? A motivo del principio del duplice effetto il quale interessa quelle azioni che producono uno o più effetti positivi ed uno o più effetti negativi. In questo caso abbiamo un atto (l’operazione) che potrà produrre un effetto positivo (la salvezza di una delle gemelline) e un effetto negativo (la morte dell’altra). L’azione è lecita se si rispettano tutti e cinque i criteri previsti dal principio del duplice effetto che qui di seguito andremo ad illustrare.
Primo: l’atto deve essere in sé neutro o moralmente buono. Operare è un atto di per sé neutro e diventa moralmente buono se compiuto - e questo accade nella generalità dei casi (ma non per l’aborto ad esempio) - con l’intenzione di curare una persona o salvarle la vita. Nel caso di specie si interviene con lo scopo di salvare almeno una delle piccole, quindi l’atto di per sé è buono.
Secondo: l’effetto negativo non deve essere ricercato direttamente ma deve essere sopportato come conseguenza non voluta dell’azione principale. Il medico agirà correttamente sotto il profilo etico non se vorrà far morire una per salvare l’altra, ma se vorrà salvare l’una sopportando l’effetto certo della morte dell’altra. Io medico cerco direttamente l’effetto salvezza di una delle due e tollero l’effetto indiretto da me non voluto della morte dell’altra. Quindi durante l’intervento, e non sono sottigliezze tecniche ma motivazioni etiche grandi come montagne, non si dovrà direttamente e concretamente uccidere una delle due bambine al fine di salvare l’altra, ma ricercare la sopravvivenza dell’una tollerando così che l’altra muoia.
Terzo: l’effetto negativo non deve essere strumentale al prodursi dell’effetto positivo. Qui occorre far attenzione: non sarà la morte di una delle due gemelline a produrre come esito la salvezza dell’altra. Concretamente infatti questo effetto positivo sarà causato dall’ “assegnazione” degli organi vitali e non ad una di loro, e non sarà causato dal decesso della sorellina.
Quarto: equipollenza dei beni in gioco. L’intervento è lecito anche perché sul piatto della bilancia si mette la vita/la morte di una delle bimbe e sull’altro piatto la vita/la morte dell’altra. I beni sono di pari valore. Per ipotesi contraria facciamo il caso di due siamesi che vengono divisi ben sapendo che uno di loro morirà: si decide per l’intervento non perché c’è rischio di morte per uno dei due o di entrambi, ma solo per permettere al più fortunato di vivere autonomamente. In questo caso il bene della vita viene barattato con il bene della privacy, di valore assai minore.
Quinto criterio: stato di necessità. L’intervento che provocherà la morte di una della due deve essere l’extrema ratio, l’ultima spiaggia. Se ci fossero altre soluzioni affinchè le due piccole possano vivere occorre prima percorrere quelle soluzioni. Ad esempio: possibilità di trapiantare in una tutti gli organi che sono andati alla sorellina. Oppure dividersi gli organi e così anche i trapianti. Ma più che opzioni reali sono fantasticherie teoriche queste e quindi non sono soluzioni spendibili per il nostro caso. Nella vicenda che interessa Lucia e Rebecca invece si è costretti a tale intervento perché o entrambe moriranno oppure una delle due grazie all’operazione vivrà. Se, come accennato prima, ci fosse la possibilità che entrambe possano vivere seppur non divise allora si dovrà optare per la non separazione, cioè, ribaltando il punto di visuale, non ci sarebbe la necessità dell’intervento chirurgico.
Quale tra le due? Quindi è lecito intervenire chirurgicamente per la separazione anche se questo provocherà la morte di una delle due. Ma ecco il dilemma forse più scottante e terribile: tra Rebecca e Lucia quale far sopravvivere? La soluzione che, sempre per via ipotetica e con molta prudenza, ci pare di suggerire è quella di far vivere la gemellina che, stante il suo quadro clinico, ha più chances di sopravvivenza. Tale soluzione è il tema più dibattuto in questi giorni dai bioeticisti. Si sostiene che non si può scegliere a priori, a tavolino chi deve sopravvivere e chi no. Si deve operare nell’intento di salvarle entrambe. Vero è che si dovrebbe operare con il fine di salvarle entrambe ma, in questo caso, i fatti cancellano questa opzione e rimane in piedi solo l’ipotesi di poterne salvare una. È come decidere che oggi deve essere una bella giornata di sole: ma se piove non c’è intenzione che tenga per fermare la pioggia. In realtà non è il medico che come un novello Hitler farà vivere la più forte, bensì è il già ricordato stato di necessità che deciderà per noi.
Allora non è il medico che in modo utilitarista sceglie di far vivere Rebecca a posto di Lucia o viceversa, ma è la condizione fattuale, le circostanze non volute da nessuno che spingeranno per forza maggiore a limitare i danni per quello che è possibile, cioè a perseguire il maggior bene possibile in quel frangente. E se quel frangente mi dice che Lucia ha più possibilità di sopravvivere allora tenterò di strappare alla morte almeno lei, perché questo è il maggior risultato possibile, perché devo perseguire quello scenario che mi promette il miglior esito della vicenda rebus sic stantibus. Qui l’utilitarismo c’entra poco perché i proporzionalisti per uno sperabile e futuro risultato positivo sono disposti a commettere anche azioni intrinsecamente malvagie. E nel caso presente non vi sono atti di per se stessi cattivi.
Il caso dei due alpinisti. Questa cruda realtà la si apprende sui banchi delle facoltà di giurisprudenza quando si spiega lo stato di necessità in diritto penale. Mario e Giacomo stanno compiendo una scalata e sono legati tra loro con una fune. Mario è in testa, Giacomo qualche metro sotto. Ad un certo punto Giacomo sviene, cade nel vuoto ma non si sfracella a terra perché trattenuto dalla fune legata al compagno Mario. Giacomo quindi penzola nel vuoto. Mario non ha la forza di trarlo a sé e sente che tra pochi attimi Giacomo lo trascinerà giù con il suo peso. Che fare? In questo caso è lecito che Mario tagli la fune. Mario non sceglie di far morire il compagno di cordata Giacomo, sceglie di far vivere se stesso, difendendosi dal pericolo di morte che è stato provocato dalla perdita dei sensi di Giacomo tramite il taglio della fune che lo lega a questi. È costretto a tagliare la fune, non opta di tagliarla (la scelta è tale solo se praticata in piena libertà). Mario salva se stesso perché non può fare altrimenti e perché è quello che ha più possibilità di salvarsi (il gesto di tagliare la corda non è esente da pericoli per lo stesso Mario): il destino di Giacomo in un modo o nell’altro invece è già segnato. Così per il caso delle gemelline siamesi: i medici non sceglieranno di salvare una vita piuttosto che un’altra, ma saranno costretti dalle circostanze a prediligere chi ha più possibilità di salvarsi. Il quadro clinico tragico delle due gemelle è lo svenimento dell’esempio di prima.
La vicenda comunque è complessa e ci rammenta quello che diceva Tommaso D’Aquino sulla morale, la quale è certa nei suoi principi generalissimi, ma diventa per il minuscolo intelletto dell’uomo - ma mai ovviamente per l’infinita sapienza di Dio - sempre più oscura quanto più questi principi si applicano ai casi concreti.
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