lunedì 20 giugno 2011

DIBATTITI/ 2. La “persona” sfida le pretese riduzioniste delle neuroscienze cognitive di Gianfranco Basti, lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net

Le neuroscienze cognitive, per il semplice fatto di aver individuato con maggiore chiarezza che nel passato, e soprattutto con quella universalità del risultato che l’uso di un appropriato metodo scientifico consente,  il correlato neurofisiologico di certe operazioni mentali, non solo quelle a valenza religiosa, ma anche quelle più in generale legate alla coscienza, al ragionamento, alla scelta morale, interpretano tutto questo come «dimostrazione scientifica» dell’illusorietà della libertà e quindi della responsabilità individuale. Ora, se certamente queste scoperte costituiscono una confutazione delle antropologie filosofiche dualiste antiche (platoniche) e moderne (cartesiane) non è vero che l’alternativa monista — le operazioni mentali non sono “nient’altro che” prodotto di eventi elettro-chimici neurali come la digestione lo è della chimica dei succhi gastrici — professata da tanti neurofisiologi sia l’unica possibile.
Al contrario l’ontologia duale, attenta a correlare ma mai a confondere “materia” (massa e/o energia) e “informazione”, emergente da tanta parte delle scienze naturali  contemporanee. In fisica quantistica, per esempio, si pensi alla dualità irriducibile “onda” / “particella” sintetizzata nel famoso adagio di John A. Wheeler  from it to bit. In biologia, si pensi alla recente dimostrazione che l’eccezionale quantità d’informazione che si produce in ogni processo ontogenetico di un organismo, non ha origine solo “genetica” dal DNA, ma “epigenetica”, dipende cioè dal feedback che i livelli più alti di organizzazione del materiale biologico del singolo individuo in sviluppo e/o sviluppato esercitano sulle sequenze del DNA delle cellule, dando luogo al fenomeno, sotto certe condizioni reversibile, della progressiva specializzazione cellulare, a partire da quelle totipotenti dell’embrione.
Ora, tutto questo fa sì che l’antropologia più appropriata, in grado di porsi in continuità con le neuroscienze cognitive che, a loro volta, applicano l’approccio informazionale allo studio delle basi neurali delle operazioni cognitive non sia quella «dualista» o «monista» ma quella duale. Quella cioè che fa dell’unità psicofisica, della persona umana e non di alcune sue parti, siano esse il cervello o la mente, il soggetto delle operazioni cognitive. Come amava ricordare Tommaso d’Aquino, colui che nel Medioevo sviluppò al più alto grado di rigore metafisico l’antropologia duale, attribuire alla mente (dualismo) o al cervello (monismo), presi a sé stanti, le operazioni cognitive  è tanto assurdo quanto attribuire alla mano o allo scalpello e non allo scultore la paternità della statua prodotta.
Per questo non fa alcuna difficoltà ad un’antropologia duale che qualsiasi operazione mentale dell’uomo abbia un correlato neurofisiologico necessario, proprio come è necessario allo scultore il martello per fare la statua. Nondimeno autore dell’atto cognitivo non è il cervello, ma la persona che lo possiede. Allo stesso tempo questo non è materialismo, perché il cervello non è solo materia, ma materia organizzata da una forma. Operazionalmente, ovvero, in una traduzione delle nozioni di questa ontologia in un modello matematico, capace di essere controllato empiricamente attraverso determinate operazioni di misura, ogni processo cerebrale è costituito da uno scambio di materia e informazione ed è l’informazione che ci costituisce nella nostra specificità molto più che la materia.
Noi infatti, e massimamente il nostro cervello, cambiamo completamente la materia di cui i nostri corpi sono fatti almeno due volte l’anno, nondimeno restiamo noi stessi, perché è l’informazione (ontologicamente la “forma”), ovvero “l’ordine delle parti materiali” di cui a diversi livelli (organismo, organo, tessuto, cellula, proteina, atomo, particella sub-atomica,…) siamo costituiti, che garantisce la nostra continuità nel tempo.
Nell’ontologia, e quindi anche nell’antropologia, «duali» ogni corpo e ogni sua parte, insomma, non è solo materia, ma materia e informazione, essendo «l’informazione» una grandezza fisica misurabile (è un entropia statistica), ma immateriale: è bit non it. Informazione che, nel caso degli organismi biologici come già ricordato, è l’individuo stesso a produrre, facendo sì che l’individualità qualitativamente caratterizzata sia distintiva del mondo organico e non di quello inorganico. Due atomi di oro, con “storie” totalmente diverse, sono assolutamente indistinguibili, si differenziano cioè solo numericamente, non qualitativamente. Viceversa, non esistono due animali o piante della medesima specie identici. Addirittura, due gemelli monozigoti, con lo stesso DNA, non sono affatto identici a livello fisiologico, per esempio, hanno due sistemi immunitari distinti.
Ora, lo specifico dell’uomo che lo rende “persona” è che esso non è soltanto, come un qualsiasi organismo, un sistema auto-organizzante energeticamente “aperto”, che scambia cioè materia con l’ambiente (metabolismo) e produce informazione. L’uomo è anche informazionalmente “aperto”. E’ un corpo che ha una vita psichica perché scambia anche informazione e non solo materia con l’ambiente (conosce) e con i suoi simili (comunica), senza quei limiti che invece gli animali hanno, anche quelli “superiori” nella scala evolutiva[1]. Per dirla con Aristotele, che per primo elaborò nell’antichità un’antropologia duale, l’uomo è animale razionale (biòs loghikòs) perché è animale sociale(biòs politikòs), anche se egli non arrivò mai a definire il concetto di “persona” come soggetto irriducibile di diritti e doveri uguali per tutti.

Per lui, come per Platone e qualsiasi greco, i “barbari”, i non-greci, non avevano anima razionale, proprio perché non appartenenti alla polis. Perché si arrivi a definire l’uomo di qualsiasi popolo, cultura e razza come soggetto irriducibile di uguali diritti e doveri, come colui che è sempre fine e mai può essere ridotto a mezzo, come dirà poi Kant; in una parola, per arrivare a definirlo come persona, occorre che loscambio d’informazione su cui si basa la vita psichica umana[2] “trascenda” non solo il livello fisiologico — per questo di per sé basta la cultura, l’appartenenza a una polis, come già sapeva Aristotele — ma anche il livello culturale. Altrimenti dove va a finire la dignità, ma anche la responsabilità morale e legale, appunto, «personali», di ogni uomo in quanto uomo e non come appartenente a questa o quella cultura, razza, gruppo? Dove va a finire cioè la radice della nostra civiltà occidentale e la sua pretesa di universalità, così ben riassunta nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani?

Occorre insomma che lo “scambio d’informazione” che fa di ogni singolo animale-politico-uomo unapersona, e non solo un non-barbaro, sia anche con il «fondamento» trascendente l’ambiente fisico e culturale. Quel «fondamento trascendente» che allora — mi si perdoni il voluto gioco di parole —, non senza fondamento razionale «meta-fisico», il credente definisce “Dio”, dando ad «esso», che perciò è creduto essere un Lui, una natura a sua volta personale. Ovvero, facendo di ogni uomo un’imago Dei,come per primo Agostino lo definì nella Città di Dio, nel testo che perciò costituisce la magna charta,anche politica, non solo della civitas christiana medievale, ma la radice della stessa civilizzazione occidentale moderna.
Proprio in quel testo, infatti, si afferma che è la persona-imago-Dei, e non il cives, greco o romano che sia[3], il soggetto irriducibile di diritti e doveri nella civitas. Non è forse la Bibbia e il Vangelo a ricordarci che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio?”. Ma, come ricorda Melloni nell’articolo “Cercando il «neurone di Dio»”  questa dell’imago dei è “teologia” non “neuroteologia”, anche se può essere posta in continuità con le neuroscienze cognitive, grazie ad un’appropriata ontologia duale della realtà fisica, biologica e antropologica.    

[1] Gli animali superiori sono certamente capaci di conoscenza e comunicazione, ma non sono in grado di cambiare “i codici” della loro comunicazione e quindi di inventarsi nuovi linguaggi, nuove strutture cognitive. Hanno cioè una logica, ma non una meta-logica, proprio come hanno una coscienza, ma non un auto-coscienza…
[2] “L’anima” non è nel corpo o in qualche sua parte, come nelle antropologie sia dualiste che moniste, ma “l’anima contiene il corpo e le sue parti” come affermano Tommaso e tutte le antropologie duali, anche quella fenomenologica.
[3] Ricordiamo che l’occasione storica della scrittura di quel testo da parte di Agostino era stato l’evento sconvolgente del “sacco di Roma” del 410 ad opera di Alarico, ovvero l’anticipazione di quella caduta dell’impero romano d’occidente che si sarebbe verificata meno di settant’anni dopo. La fine della civitas hominis, mentre la civitas Dei è immortale quanto le persone che la compongono.


© Riproduzione riservata.

Nessun commento:

Posta un commento