La non banalità del male - Gabriele Nissim per “Il Corriere della Sera”, 27 giugno 2011
Moshe Landau credeva profondamente nell’autonomia e nell’imparzialità della magistratura. Quando lo incontrai a casa sua una decina di anni fa si lamentò per il comportamento di certi magistrati in Israele che amavano rilasciare dichiarazioni pubbliche. «Un giudice esercita il suo lavoro soltanto in tribunale, altrimenti rischia di non essere credibile. Egli deve ricercare la verità nel corso dei processi e non cercare facili consensi nell’opinione pubblica» . Fu questo lo spirito che lo guidò nel corso del processo Eichmann. Si impegnò fin dal primo giorno affinché non assumesse una natura propagandistica, ma giudicasse esclusivamente le responsabilità dell’imputato. Per questo motivo chiese al procuratore Hausner di limitare gli interventi dei testimoni che si dilungavano sul racconto delle loro sofferenze: «Io sono consapevole che è difficile interrompere certe testimonianze, ma penso che sia suo dovere spiegare ai testimoni che devono concentrarsi soltanto sugli argomenti attinenti al processo» .
Nella sentenza che decretò la condanna a morte di Adolf Eichmann confutò le tesi difensive del criminale nazista che nel corso del dibattimento cercò di giustificarsi, sostenendo di avere soltanto obbedito a degli ordini. «Anche se fosse stato provato che l’imputato avesse agito per obbedienza cieca, come egli sosteneva, avremmo comunque detto che un uomo che ha preso parte a crimini di tale portata avrebbe dovuto scontare la pena massima e non avrebbe potuto ottenere una riduzione della pena. Ma abbiamo invece scoperto che l’imputato ha agito per un’identificazione interiore con gli ordini che gli erano stati dati e per una forte volontà di raggiungere l’obiettivo criminale. È per noi irrilevante se questa identificazione o volontà sia il risultato della formazione che ricevette in quel regime, come sostiene la difesa» . Riflettendo su quel suo giudizio domandai a Landau cosa pensasse del libro di Hannah Arendt su Eichmann e della sua tesi sulla banalità del male. Non glielo avessi mai chiesto! Pronunciando soltanto il nome della filosofa di Hannover mi giocai la reputazione. Moshe Landau mi guardò storto emi disse di essersi scontrato duramente con Hannah Arendt a casa di Kurt Blumenfeld, presidente della federazione sionista tedesca fino all’avvento di Hitler. «Eichmann ha fatto uccidere gli ebrei con profonda convinzione. Altro che banale… amava con tutto il suo cuore il lavoro che faceva. Ha agito in questo modo perché pensava come un nazista, non perché non era in grado di pensare» . Recentemente sono stati pubblicati dal settimanale «Der Spiegel» alcuni documenti che sembrano confermare le osservazioni di Moshe Landau. In una conversazione registrata con dei suoi amici nazisti in Argentina prima dell’arresto, Eichmann esprime dispiacere per non avere portato a termine il suo lavoro: «Noi non abbiamo lavorato bene. Si poteva fare molto meglio» . E poi aggiunge: «Io non ero un semplice esecutore di ordini. Non ero uno stupido, facevo parte dei pensatori del progetto. Io ero un idealista» . Daniel Goldhagen nel suo ultimo libro Peggio della guerra (Mondadori), polemizzando con Hannah Arendt, ricorda che il vero Eichmann era profondamente antisemita e fiero di esserlo. Egli stesso confessò a degli amici nazisti che a motivarlo nelle sue azioni era una convinzione interiore: da qui nasceva il suo fanatismo. «Quando giunsi alla conclusione che fare agli ebrei quello che abbiamo fatto era necessario, lavorai con tutto il fanatismo che un uomo può aspettarsi da se stesso. Non c’è dubbio che mi considerassero l’uomo giusto al posto giusto… Ho agito sempre al cento per cento, e nell’impartire ordini non ero certo fiacco» . Ancora più rilevante, ricorda Goldhagen, è il fatto che Eichmann si vantava dei milioni di ebrei che aveva ucciso. Pochi mesi prima della fine della guerra disse al suo vice: «Riderò quando salterò dentro la tomba al pensiero che ho ucciso cinque milioni di ebrei. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere» . Sono queste le parole— si chiede l’autore— di un burocrate che fa il suo lavoro senza pensare, senza riflettere, senza avere una particolare opinione? Ha avuto dunque torto Hannah Arendt quando ha dipinto il carnefice nazista come un uomo mediocre e superficiale e lo ha presentato nei suoi scritti come l’emblema degli uomini che commettono i più orribili delitti senza porsi nessun interrogativo morale? In realtà la filosofa ha cercato nel suo libro di introdurre un nuovo punto di vista sui responsabili del male estremo. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso» . Ha voluto così sottolineare come gli omicidi di massa nei totalitarismi non sono stati progettati ed eseguiti da uomini che agivano per il gusto del male ma da esseri comuni. Ecco l’intuizione della banalità del male, un’ipotesi per nulla rassicurante, come aveva sottolineato lo scrittore Vasilij Grossman analizzando i delatori che mandavano le persone a morire nei gulag. Grossman osservava che il male veniva compiuto da persone che apparentemente sembravano per bene. «Sapete cosa c’è di più ripugnante nei delatori? Quel che di cattivo c’è in loro, penserete. No! È più terribile ciò che vi è di buono; la cosa più triste è che sono pieni di dignità, che sono gente virtuosa. Loro sono figli, padri, mariti teneri e amorosi, gente capace di fare del bene, di avere grande successo nel lavoro» . Eichmann, come aveva osservato la Arendt durante il processo, aveva cercato di mostrarsi come un burocrate irreprensibile che eseguiva con zelo gli ordini ricevuti e rispettava le leggi dell’epoca. Si è creato però nel corso degli anni un equivoco sul pensiero della filosofa tedesca. È parso a molti suoi critici, soprattutto in Israele, che il concetto di banalità del male possa venire applicato soltanto a una categoria di persone: coloro che di fronte a dei crimini voltano la testa dall’altra parte e che eseguono degli ordini terribili senza riflettere. Chi invece è convinto di un’ideologia eliminazionista (come lo era appunto Eichmann) non rientra nella tipologia descritta da Hannah Arendt. Invece, per la filosofa, chi viene sedotto dalle sirene di un’ideologia che propone per la felicità del genere umano l’eliminazione di una parte «infetta» dell’umanità e crede che il mondo possa essere spiegato con un’idea di pura fantasia applicata alla realtà, rientra a pieno titolo nel novero delle persone che abdicano al pensiero. Eichmann aveva molte facce: si comportava come un burocrate ossequiente al potere e nello stesso tempo era convinto della missione a cui era stato chiamato da Hitler, l’eliminazione degli ebrei. Ma in ogni caso egli aveva chiuso la sua mente a ogni forma di compassione, di giudizio e d’inquietudine della propria coscienza: era banale, anche se era convinto di quello che faceva. È quanto probabilmente non ha capito delle osservazioni della Arendt lo straordinario giudice del processo Eichmann, scomparso poche settimane fa, proprio a cinquant’anni dal processo che lo vide protagonista.
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