Dal 15 al 17 giugno scorso si è svolta l’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Statunitense, assemblea in cui è stato approvato il documento “Vivere ogni giorno con dignità” che riguarda il suicidio assistito.
Il documento si apre costatando che è desiderio di tutti vivere gli ultimi giorni in modo dignitoso e serenamente, circondati dall’affetto dei propri cari. D’altro canto ognuno di noi teme di soffrire, di perdere il controllo del proprio corpo e di diventare così un peso per gli altri. La risposta a questa umanissima paura allora può essere duplice. Da una parte c’è il prendersi cura del malato nella sua globalità: non solo cure palliative, dunque, ma anche attenzione all’anima e alla psiche dei sofferenti, non cadendo nella banale medicalizzazione del dolore bensì andando a rintracciare le sue radici più profonde, la radici della sofferenza psicologica.
Oppure si propone un’altra soluzione diametralmente opposta: il suicidio assistito, ammantando poi questo crimine con l’espressione “morire con dignità”. Eliminando il paziente, così si sostiene, si elimina il dolore e la paura. Negli USA il suicidio assistito è pratica rigettata da moltissimi medici e politici, e il cosiddetto “diritto a morire” fu negato dalla Suprema Corte in una storica sentenza del 1997, sebbene in Oregon l’eutanasia sia permessa sin dal 1994.
Però ultimamente sembra che il vento stia cambiando. Infatti il Cardinale Daniel Di Nardo, presidente del comitato per le Attività Pro-Vita della Conferenza Episcopale Statunitense, afferma che c’è “una legge simile a quella dell'Oregon nello Stato di Washington, per referendum popolare, nel novembre 2008, e una decisione della Corte Suprema statale del Montana che dichiara essenzialmente che il suicidio assistito non è contrario alla politica pubblica, nonchè sforzi per approvare la legislazione in vari Stati del New England e dell'Ovest”.
I vescovi appuntano che il suicidio assistito spesso viene venduto come se fosse un atto di libertà, esprimente appieno il principio di autodeterminazione. In realtà così non è, sottolineano i porporati, per alcune ragioni assai evidenti.
Innanzitutto chi vuole morire lo fa perché costretto dalla sofferenza fisica e soprattutto psichica. Sotto tortura – aggiungiamo noi – non è possibile compiere alcuna scelta davvero libera. Occorre invece curare la depressione che spinge a farla finita e non incentivarla offrendo soluzioni finali che spalancano le porte alla morte del sofferente. E’ per questo motivo che i vescovi affermano che i pazienti depressi “hanno bisogno di aiuto per essere liberati da questi pensieri suicidari grazie ad attività di sostegno e ascolto, e se necessario tramite il ricorso ai farmaci. Somministrare droghe letali non è una vittoria per la libertà individuale bensì è solo la peggior forma di abbandono che esista”.
In secondo luogo le leggi che approvano il suicidio assistito trattano alcune persone come se fossero di serie B. Se il malato cronico, quello in fase terminale, quello che soffre di demenza senile, quello affetto da grave disabilità si vedono l’ “opportunità” riservata a loro e solo a loro di uscire di scena senza far troppo rumore, viene il sospetto che queste categorie di persone valgono di meno rispetto ad altre. Il suicidio assistito allora in questa prospettiva più che offrire uno strumento per vivere appieno il proprio diritto di autodeterminazione anche in punto di morte, sembra l’uscita secondaria indicata da medici e politicanti per coloro i quali sono un peso per la società. Persone socialmente non gradite, in parole povere.
Infine chi si vuole uccidere contraddice con questa intenzione il principio di libertà individuale perché è “la scelta di eliminare tutte le scelte”. La vita infatti è il presupposto di tutte le scelte, la morte pone fine alla possibilità di compiere qualsiasi opzione.
Il documento poi punta il dito contro un certo falso pietismo. Asserire che l’aiuto al suicidio è un atto di compassione è solo una mistificazione. Compassione è accompagnare all’evento morte, partecipare alle sofferenze del malato, non sopprimere il malato. Si devono “aiutare le persone vulnerabili con i loro problemi, non trattarle come se loro fossero il problema”. Agire per compassione nella prospettiva aberrante dell’eutanasia poi porta ad allargare pericolosamente il cerchio dei soggetti “bisognosi” della dolce morte, attraverso la dinamica del piano inclinato. Non più solo i malati terminali, ma anche i pazienti cronici, i disabili e persino i depressi potranno accedere all’eutanasia.
Dietro a questi scenari – così continuano i vescovi – si muovono anche interessi economici non di poco conto. E’ indubbio che tutti noi pesiamo sulle tasche dei contribuenti proprio negli ultimi anni di vita, cioè quando con buona probabilità soffriremo di qualche patologia assai seria. La scappatoia per risparmiare soldi allora è quella dell’eutanasia, soluzione poco costosa e che permette di distrarre le risorse finanziare ad altre voci di spesa.
E allora come rispondere a questa cultura necrofora? La Conferenza Episcopale Statunitense rammenta la soluzione proposta da Giovanni Paolo II: “la via dell’amore e della vera misericordia”. Cioè la vicinanza, il cum-patire, il farsi carico e il prendersi cura di chi soffre. E poi approfittare con spirito cristiano di questi ultimi istanti di vita per farsi trovare pronti all’incontro con Dio, sfruttando paradossalmente proprio il dolore fisico e la paura della morte, così come ci ha insegnato la passione di nostro signore Gesù Cristo, per convertire la sofferenza in monete di santità al fine di acquistare per sé la vita eterna.
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