martedì 19 luglio 2011

La tutela della vita non entra in Consultorio 

Il Tar del Piemonte, con la sentenza n. 793 del 15 luglio 2011, ha bocciato il protocollo della Giunta regionale piemontese che aveva introdotto i volontari dei movimenti per la vita nei consultori. 

Il requisito soggettivo della presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento, previsto dal protocollo per l’inserimento negli elenchi formati dalle ASL, sarebbe irragionevolmente discriminatorio. 

La vita non c'entra. In fondo, la legge 22 maggio 1978, n. 194 si occupa di aborto. Dunque, il concepito cosa c'entra? 

Invece, no! C'entra! 

“Lo Stato...tutela la vita umana dal suo inizio”. Non è l'espressione inventata da un'associazione pro life. E' il testo di una norma di legge: proprio il primo comma del primo articolo della 194. 

Non basta. I consultori familiari hanno lo scopo, come ammette lo stesso giudice estensore della sentenza, di fare acquisire alla donna la reale consapevolezza del suo status e dei suoi diritti, in modo da “contribuire a fare superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza” (art. 2, primo comma, lett. d, L. 194/1978). 

Il consultorio, poi, ha il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari di esaminare le possibili soluzioni dei problemi, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza (art. 5, primo comma, L. 194/1978). 

Si può davvero ritenere irragionevole che le organizzazioni e le associazioni che intendano collaborare con l'attività dei consultori aderiscano per statuto agli obiettivi sanciti dalla legge? 

Perseguire le finalità della legge è senz'altro doveroso. A maggior ragione quando, come nel caso di specie, lo scopo di tutela della vita umana dal suo inizio è prescritto espressamente. In nessun caso può essere ritenuto irragionevole. 

In che modo, poi, l'obbligo del protocollo potrebbe essere considerato discriminatorio? Forse che sarebbero legittime associazioni o organizzazioni che si proponessero non la tutela ma l'uccisione del concepito? Non costituisce reato l'interruzione di gravidanza avvenuta senza il consenso (libero e informato) della donna? O carpito con l'inganno? (art. 18, L. 194/1978). Non è reato l'interruzione di gravidanza in assenza degli accertamenti e dell'esame delle possibili soluzioni alternative all'aborto? (art. 19, primo comma, L. 194/1978). 

Ebbene sì! La legge discrimina: lecito da illecito, giusto da ingiusto. Il nostro ordinamento non arrossisce nel punire l'associazione per delinquere (art. 416 c.p.) e a nessuno è mai venuto in mente di invocare la libertà di associazione. 

La libertà non è neutra deve essere diretta al bene. Quando non lo è può, deve essere limitata o impedita come nel caso appena citato. 

Il Tar del Piemonte, infine, ritiene che solo i requisiti di professionalità dovrebbero governare le scelte dell'ASL nell'individuare le associazioni o organizzazioni da convenzionare. 

Un altro errore: la professionalità non basta. Quando in gioco c'è la vita umana non è solo questione di tecnica: occorre l'ideale, occorre un desiderio forte, ancorato a solide ragioni che, sole, possono sostenere la dura lotta per tutelare la vita fin dal suo inizio, come in tutti questi anni hanno testimoniato le associazioni pro life. 

(Avv. Giorgio Razeto) 







Di seguito la sentenza T.A.R. Piemonte n. 793 del 15/07/2011 




REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte 

(Sezione Seconda) 

ha pronunciato la presente 

SENTENZA 

sul ricorso numero di registro generale 1529 del 2010, proposto da: 




Associazione Casa delle Donne - Associazione di Promozione Sociale, in persona delle delegate p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Mirella Caffaratti e Arianna Enrichens, con domicilio eletto presso il loro studio, in Torino, via Morghen, 28; 

contro 

Regione Piemonte, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Chiara Candiollo dell’Avvocatura regionale, domiciliata presso la medesima, in Torino, piazza Castello, 165; 

nei confronti di 

Associazione Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia – Associazione di promozione sociale e Associazione Movimento per la Vita di Torino in persona dei loro presidente e legali rappresentanti p.t., rappresentate e difese dagli avv.ti Carlo Casini, Mimma Guelfi e Francesca Mastroviti, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima, in Torino, via Schina, 15; 







sul ricorso numero di registro generale 11 del 2011, proposto da: 




Associazione A.C.T.I.V.A. Donna, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Ciccia, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo, in Torino, via Susa, 23; 



contro 

Regione Piemonte, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Chiara Candiollo dell’Avvocatura regionale, domiciliata presso la medesima, in Torino, piazza Castello, 165; 

nei confronti di 

Associazione Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia – Associazione di promozione sociale, in persona del presedente e legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Carlo Casini, Mimma Guelfi e Francesca Mastroviti, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima, in Torino, via Schina, 15; 

per l'annullamento 

quanto al ricorso n. 1529 del 2010: 

della deliberazione della Giunta Regionale n. 21-807 del 15 ottobre 2010, avente per oggetto: "Approvazione del 'Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l'interruzione volontaria di gravidanza'", pubblicata sul Bollettino Ufficiale n. 43 del 28 ottobre 2010, in particolare nelle parti in cui prevedono che "l'accoglienza della donna in gravidanza può essere indifferentemente effettuata dai servizi consultoriali, dai centri per la famiglia e dalle altre strutture del Volontariato/privato sociale, che abbiano stipulato idonee convenzioni", nonché nella parte in cui prevede che siano iscritti negli appositi elenchi delle ASL, finalizzati alle azioni previste dal Protocollo, gli enti no profit, che abbiano nel loro statuto la previsione "della finalità di tutela della vita fin dal concepimento"; 

nonché avverso e per l'annullamento 

degli atti tutti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi con l'anzidetta deliberazione.. 

quanto al ricorso n. 11 del 2011: 

- della deliberazione della Giunta Regionale Piemonte 15 ottobre 2010 n. 21-807 <<Approvazione del "Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l'interruzione volontaria di gravidanza">>, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte n. 43 del 28/10/2010; 

- di tutti gli atti antecedenti, presupposti, connessi, derivati e consequenziali.. 




Visti i ricorsi e i relativi allegati; 

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Piemonte, dell’Associazione Movimento per la Vita - Torino e dell’Associazione Movimento per la Vita Italiano, Federazione Movimenti per la Vita e Centri aiuto alla vita; 

Viste le memorie difensive; 

Visti tutti gli atti della causa; 

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2011 la dott.ssa Manuela Sinigoi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 




FATTO 

Le Associazioni di promozione sociale Casa delle Donne e A.C.T.I.V.A. Donna, con separati ricorsi rubricati rispettivamente sub R.G. 1529/2010 e R.G. 11/2011, sono insorte innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale avverso il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza”, approvato con deliberazione della Giunta regionale per il Piemonte n. 21-807 in data 15 ottobre 2010, contestandone la legittimità sotto diversi profili e invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, nella parte in cui prevede che “l’accoglienza della donna in gravidanza può essere indifferentemente effettuata dai servizi consultoriali, dai centri per la famiglia e dalle altre strutture del volontariato/privato sociale, che abbiano stipulato idonee convenzioni” (pt. 2.1 protocollo) e in quella ove contempla, tra i requisiti soggettivi minimi che devono essere posseduti dagli enti no profit per essere iscritti negli elenchi dell’ASL, “la presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento e di attività specifiche che riguardino il sostegno alla maternità e alla tutela del neonato”. 




La Regione Piemonte si è costituita in giudizio per resistere ai ricorsi, deducendone, in via preliminare, l’inammissibilità e, nel merito, l’infondatezza. 




Si sono costituite, altresì, in giudizio l’Associazione Movimento per la Vita Italiano e l’Associazione Movimento per la Vita di Torino, che hanno concluso ugualmente per l’infondatezza dei ricorsi, non senza trascurare di eccepirne, in via preliminare, l’inammissibilità. 




Le parti hanno depositato memorie e documenti. 




Dopo la rinuncia da parte delle Associazioni ricorrenti alla trattazione delle istanze cautelari proposte, entrambe le cause sono state chiamate alla pubblica udienza dell’8 giugno 2011 e, quindi, trattenute per la decisione. 

DIRITTO 

1) Il Collegio ritiene innanzitutto che sussistano evidenti ragioni di connessione oggettiva e, in parte, soggettiva, che consentono la riunione dei ricorsi in epigrafe ai sensi dell’art. 70 del Codice del processo amministrativo, al fine della loro unitaria trattazione e definizione con un’unica pronuncia. 




1.1) E’ contestata, infatti, la legittimità del medesimo provvedimento amministrativo adottato dalla Regione Piemonte ovvero il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza”, con l’ulteriore conseguenza che, trattandosi di un atto a portata generale, ogni decisione al riguardo assunta da questo giudice e, in particolare, un suo eventuale annullamento, totale o parziale, non potrebbe che avere efficacia erga omnes (C.d.S., IV, 23 aprile 2004, n. 2394). 




2) Prima di affrontare le questioni preliminari d’inammissibilità sollevate dalla difesa della Regione e, se del caso, il merito di quelle poste dalle associazioni ricorrenti, il Collegio ritiene, tuttavia, utile richiamare l’attenzione delle parti sui limiti del sindacato di legittimità di questo Tribunale, in quanto le tesi difensive dalle medesime svolte sono sconfinate, per lo meno in parte, nel campo del dibattito puramente ideologico, che, oltre a non aver nulla a che fare con i vizi dell’atto, non può ovviamente trovare ospitalità in questa sede. 




2.1) Va ribadito, infatti, che, la cognizione del Collegio è limitata, a mente dell’art. 103, prima parte, Cost., alla verifica dell’immunità o meno dell’atto impugnato dai tre vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge). 




3) Ciò premesso, si può, quindi, passare allo scrutinio delle questioni poste dalle parti. 




4) In via preliminare, va vagliata l’eccezione d’inammissibilità dei ricorsi sollevata dalla Regione. 




4.1) Ad avviso della difesa regionale, le associazioni ricorrenti sarebbero, infatti, prive di legittimazione attiva, in quanto non iscritte, alla data di proposizione dei rispettivi gravami, al registro regionale delle associazioni di promozione sociale – sezione regionale e sezione provinciale, che, ai sensi dell’art. 8, comma 4, della legge n. 383/2000 e dell’art. 6, comma 6, della legge regionale piemontese n. 7/2006, costituisce condizione necessaria per stipulare convenzioni con la Regione o con altri enti pubblici. 




4.2) Tale assunto non può essere condiviso. 




4.2.1) A prescindere dalla considerazione che entrambe le ricorrenti hanno ora comunque documentato l’avvenuta iscrizione nel registro regionale su indicato, non può omettersi dal rilevare che l’associazionismo è un diritto, costituzionalmente riconosciuto, che non può subire limitazioni, se non nei casi espressamente previsti, e che va, anzi, salvaguardato e promosso in ragione del suo elevato valore sociale, quale espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo. 




4.2.2) Le norme invocate dalla Regione non pongono, peraltro, limiti temporali per il perfezionamento dell’iscrizione nei registri di che trattasi da parte delle cd. associazioni di promozione sociale, ma richiedono unicamente che le associazioni che ambiscono ad iscriversi negli stessi soddisfino i requisiti di cui all’ art. 2 della L.R. 7/2006 ovvero che abbiano sede legale in Piemonte e che siano costituite ed operanti da almeno sei mesi ovvero che abbiano almeno una sede operativa in Piemonte, attiva da non meno di sei mesi, e siano una articolazione territoriale di un'associazione iscritta al registro nazionale di cui all'articolo 7 della L. n. 383/2000, “al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati e con lo scopo di recare benefici diretti o indiretti ai singoli e alla collettività” e il cui atto costitutivo e statuto corrispondano ai requisiti stabiliti dall’art. 3 della legge medesima. 




4.2.3) Del pari, nessun limite temporale è stabilito dall’atto generale ora all’esame per l’iscrizione delle medesime negli elenchi dell’ASL. 




4.2.4) Ne deriva, dunque, che, in ogni tempo, qualsiasi associazione in possesso dei requisiti previsti potrebbe ambire ad ottenere l’iscrizione nei registri di che trattasi e, conseguentemente, chiedere di convenzionarsi con le ASL per i fini riguardati dal protocollo oggetto della presente disamina. 




4.2.5) E’ evidente, quindi, che, stante la portata “aperta” delle disposizioni disciplinanti l’iscrizione nei registri e negli elenchi su indicati, qualsivoglia disposizione contenuta nei protocolli o nelle linee guida di settore avente carattere direttamente o indirettamente preclusivo all’instaurazione di collaborazioni con determinate formazioni sociali e, dunque, in sostanza comportante l’esclusione delle medesime dal potenziale novero delle organizzazioni di volontariato e associazioni del privato sociale ammesse al convenzionamento è tale da radicare non solo l’interesse, ma anche la legittimazione a ricorrere di quelle che assumono di subirne pregiudizio. 




4.2.6) La legittimazione a ricorrere di un’associazione va verificata, infatti, caso per caso “alla luce degli atti o comportamenti effettivamente impugnati e della loro concreta attitudine a ledere, in rapporto di diretta congruità, gli interessi” di cui l’ente è portatore statutario. 




4.2.7) E nel caso di specie l’interesse statutario delle ricorrenti è tale da dimostrare la sussistenza in capo ad esse di un’adeguata posizione differenziata necessitante di tutela, in quanto le disposizioni del protocollo di cui, nel caso specifico, viene dedotta l’illegittimità sono, per lo meno in parte, tali da incidere negativamente sul diritto delle associazioni medesime a perseguire liberamente i propri fini associativi e finanche sulla stessa libertà di associazione. 




4.3) In base alle considerazioni su indicate, l’eccezione va, dunque, disattesa ed affermata la legittimazione attiva di entrambe le ricorrenti alla proposizione dei rispettivi ricorsi, seppur nei limiti di quanto innanzi precisato. 




5) Valutazioni pressoché analoghe vanno fatte, inoltre, anche con riferimento all’interesse a ricorrere, scrutinato d’ufficio, il quale – come noto - si sostanzia nella concretezza e attualità della lesione denunciata e nell’utilità o vantaggio, anche solo potenziale, derivante dall’ottenimento di una pronuncia favorevole nel merito e che potrebbe atteggiarsi anche come mero interesse strumentale, consistente nella mera messa in discussione del rapporto controverso per effetto della rimozione dell’atto lesivo, purché il procedimento sia potenzialmente suscettibile di concludersi in senso favorevole al ricorrente. 




5.1) Nello specifico caso portato all’attenzione del Collegio, la verifica della sua sussistenza non può che essere condotta tenendo conto, in primo luogo, dell’effettiva riferibilità alle associazioni ricorrenti delle specifiche posizioni azionate e, in secondo luogo, della circostanza che l’atto impugnato è un atto a contenuto generale e, dunque, accertando, di volta in volta, se le prescrizioni del protocollo sono in grado di arrecare un pregiudizio diretto ed immediato alle ricorrenti ovvero se tali possano divenire solo a seguito dell’adozione di atti applicativi. 




5.2) Non va dimenticato, infatti, che la legge individua chiaramente quale proprio destinatario principale la donna in gravidanza (o la donna già madre) e non le associazioni del volontariato, le quali ultime sono considerate solo come possibili co-attrici del percorso di informazione, assistenza e supporto rivolto alla donna durante e dopo la gravidanza. 




5.2.1) E’ alla donna, infatti, che è rivolta la maggior parte delle disposizioni della legge (vedi artt. 2, commi 1 e 3; 4; 5; 6; 12; 14) e, dunque, è solo in capo ad essa che può ritenersi radicato l’interesse a ricorrere avverso quelle disposizioni del protocollo in grado di limitare o compromettere la posizione giuridica differenziata riconosciutale. 




5.3) Le disposizioni del protocollo di cui viene assunta l’illegittimità non possono, quindi, che essere scrutinate tenendo conto di quale sia l’effettiva situazione giuridica che viene ad essere dalle stesse immediatamente e direttamente incisa, conseguendone che per la tutela di diritti ed interessi riferibili solo ed esclusivamente alla donna non possono essere in alcun modo riconosciute la legittimazione e l’interesse a ricorrere delle associazioni di volontariato, fatto salvo che tali associazioni agiscano in forza di esplicito mandato delle singole (donne) interessate e/o che siano in grado di dimostrare la sussistenza, tra i propri fini statutari, anche di quello rivolto alla tutela dell’interesse individuale delle associate. 




5.4) Nel caso di specie è, tuttavia, pacifico sia che entrambe le associazioni ricorrenti agiscono per l’esclusiva tutela delle prerogative loro proprie, sia che i loro fini statutari non rendono comunque azionabili i diritti e gli interessi spettanti alle singole donne interessate, nemmeno se trattasi di socie, se non in forza di espresso e specifico mandato e, in ogni caso, di coincidenza delle esigenze di tutela. 




5.4.1) Chiare appaiono, infatti, in tal senso, oltre alle premesse introduttive dei due ricorsi, anche le disposizioni degli statuti delle due associazioni, dalla cui lettura emerge chiaramente che lo scopo perseguito è quello dello svolgimento di attività “a favore delle donne” e non “per conto delle donne” (vedi: all. 2 – fascicolo doc. Casa delle donne e, in particolare, artt. 2 e 9, comma 2, lett. j dello Statuto; all. 2 – fascicolo doc. ACTIVA e, in particolare, artt. 2 e 16, ult. alinea). 




5.5) Similmente a quanto avviene nel caso dei bandi di gara e di concorso, l’interesse delle ricorrenti alla proposizione dei presenti ricorsi potrà, dunque, essere affermato limitatamente a quelle sole censure volte a contestare le disposizioni aventi carattere immediatamente e direttamente lesivo delle loro prerogative e, quindi, in sostanza, con riferimento alle sole disposizioni aventi carattere impeditivo all’iscrizione delle ricorrenti medesime negli elenchi formati dalle ASL, in quanto preclusive alla loro ammissione al sistema delle collaborazioni avuto di mira dalla Giunta regionale, rispetto al quale solo è possibile rinvenire nella legge n. 194 del 1978 (art. 2, comma 2 - “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”) e nella L.R. 9 luglio 2006, n. 39 (art. 5, comma 10, - “Può anche essere utilizzato eventuale personale volontario, purché in possesso dei titoli relativi alle discipline di cui al precedente articolo”) il fondamento giuridico della loro legittimazione e del loro potenziale interesse a ricorrere. 




6) Fatte queste doverose precisazioni, si può, quindi, passare all’esame del merito. 




7) Come s’è già avuto modo di evidenziare, il protocollo impugnato è un atto generale, a carattere discrezionale, il cui regime giuridico, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale, non coincide perfettamente con quello dei provvedimenti che si rivolgono ai singoli individui. 




Del regime processuale s’è già detto. 




Con riguardo al profilo sostanziale, appare, invece, utile rammentare che la legge n. 241 del 1990, recante norme sul procedimento amministrativo, esclude per tali atti l’obbligo di motivazione (art. 3, comma 2), l’applicazione delle norme generali sulla partecipazione al procedimento (art. 13, comma 1), nonché l’accesso all’attività diretta alla loro formazione (art. 24, comma 1, lett. c). 




8) Ma veniamo ai motivi di diritto, ai quali le ricorrenti hanno affidato i rispettivi ricorsi. 




9) L’Associazione Casa delle Donne, con il ricorso R.G. 1529/2010, ha dedotto, in primo luogo, “Violazione di legge in relazione alla legge 22/5/1978, n. 194 – Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza e, in particolare, in relazione agli artt. 2, lettera d), 4 e 5. Violazione dell’art. 32 della Carta Costituzionale. Violazione della Risoluzione del Parlamento europeo sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi”. 




9.1) La doglianza è inammissibile, in parte, per difetto d’interesse a ricorrere e, in parte, per genericità. 




9.2) Osserva, invero, il Collegio che i vizi dedotti con la prima delle censure svolte non paiono in grado di incidere direttamente la posizione giuridica della ricorrente, ma unicamente quella della donna in gravidanza interessata ad intraprendere il percorso assistenziale. 




9.2.1) La disposizione di cui al pt. 2.1 del Protocollo (“L’accoglienza della donna in gravidanza può essere indifferentemente effettuata dai servizi consultoriali, dai centri per la famiglia e dalle altre strutture del volontariato/privato sociale, che abbiano stipulato idonee convenzioni previste nel presente protocollo”) è, infatti, all’evidenza rivolta a garantire effettività al diritto riconosciuto alla donna dall’art. 4, comma 1, della legge ovvero quello di “rivolgersi” alle strutture deputate ad accoglierla e a seguirla, dal punto di vista consultoriale, assistenziale e medico-sanitario, durante il percorso intrapreso con l’intenzione di interrompere la gravidanza. 




9.2.2) La circostanza, quindi, che la norma di legge abiliti a tali compiti (o per lo meno al primo contatto con la donna) unicamente il consultorio pubblico, la struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione o il medico di fiducia e che la previsione del protocollo, oltre a non trovare supporto legittimante in tale norma, appaia anche travalicare i limiti della collaborazione volontaria ai consultori che le associazioni del volontariato sono ammesse a prestare ai sensi dell’art. 2, comma 2, potrà, quindi, eventualmente radicare il solo interesse a ricorrere delle singole donne (laddove comunque sussistenti i necessari presupposti di attualità e concretezza), ma non sicuramente quello dell’Associazione ricorrente. 




9.2.3) Ne deriva, all’evidenza, l’inammissibilità della censura per difetto d’interesse a ricorrere. 




9.3) Ugualmente inammissibile, ma per genericità, ancor prima che per carenza d’interesse a ricorrere, s’appalesa, invece, la denunciata illegittimità del fine statutario di “tutela della vita fin dal concepimento”, stabilito dal protocollo quale requisito soggettivo necessario per l’iscrizione delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni del privato sociale negli elenchi tenuti dalle ASL e, quindi, per poter stipulare le convenzioni di collaborazione. 




9.3.1) Nel contesto del motivo ora all’esame la censura in questione si fonda, infatti, unicamente sulla supposizione che le associazioni che perseguono tale fine statutario, ritenute “pregiudizialmente e indiscutibilmente orientate contro l’interruzione volontaria di gravidanza” , non siano in grado di fornire alla donna l’assistenza necessaria. 




9.3.2) La difesa dell’associazione ricorrente, oltre a non denunciare la violazione di alcuna norma e, dunque, a lasciar trapelare l’assoluta inconsistenza giuridica della contestazione sollevata, sembra, peraltro, trascurare di considerare un elemento fondamentale ovvero che, a prescindere dallo specifico fine statutario perseguito, ogni associazione ritenuta idonea ed ammessa a prestare la propria collaborazione è comunque tenuta, nello svolgimento dei delicati compiti di assistenza e supporto alla donna intenzionata ad interrompere la gravidanza, ad operare nel rigoroso rispetto e perseguimento delle finalità di legge (art. 2, comma 2, - “I consultori… possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato…”), che, lungi dall’affermare il diritto incondizionato all’interruzione volontaria della gravidanza, ne riconoscono unicamente la liceità nei casi e alle condizioni stabiliti dalla legge stessa e comunque all’esito di un percorso informativo e assistenziale preordinato a far acquisire alla donna reale consapevolezza del suo status e dei suoi diritti (nessuno escluso), che potrebbe condurla anche a scegliere il parto e, volendo, la maternità, anziché l’aborto. 




9.3.3) Non va dimenticato, infatti, che, a norma dell’art. 2, comma 1, lett. d), della legge n. 194, l’assistenza a favore della donna cui sono tenuti i consultori e, conseguentemente, a norma del comma 2 del medesimo articolo, anche le associazioni del volontariato, è, altresì, mirata a contribuire a “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza”, fine che, all’evidenza, la stessa associazione ricorrente, laddove eventualmente ammessa al convenzionamento, sarebbe, quindi, obbligatoriamente tenuta a perseguire, così come la controinteressata Pro Vita non potrebbe, ovviamente, sottrarsi dal fornire alla donna in gravidanza anche tutte le informazioni riguardanti l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza. 




9.4) Inammissibili per carenza d’interesse a ricorrere s’appalesano, invece, la denunciata violazione dell’art. 32 Cost. e della Risoluzione del Parlamento europeo n. 2001/2128 con riguardo alla previsione del predetto requisito soggettivo, nonché quella degli artt. 4 e 5 della legge con riguardo al pt. 2.2. del protocollo laddove prevede che “durante il primo colloquio, per il quale se necessario e richiesto, deve essere presente il mediatore culturale e/o l’operatore del volontariato e del privato sociale”, atteso che anche in tali casi vengono in rilievo posizioni giuridiche differenziate riferibili unicamente alla donna e, nello specifico, il diritto alla salute, quello sessuale e riproduttivo, nonché quello di svolgere il primo colloquio con i soggetti per legge deputati a farlo. 




10) L’Associazione Casa delle Donne ha dedotto, inoltre, la “Violazione di legge in relazione alla legge 29/7/1975, n. 405 – Istituzione dei consultori familiari, in relazione agli artt. 1 e 3. Violazione di legge in relazione alla legge regionale 9/7/1976, n. 39 – Norme e criteri per la programmazione, gestione e controllo dei Servizi consultoriali, in relazione agli artt. 3, 4 e 5” e la “Violazione di legge in relazione al decreto legislativo 30/6/2006, n. 196 – Codice in materia di protezione dei dati personali e successive integrazioni e modificazioni, in relazione all’art. 11. Violazione di legge in relazione alla legge regionale 9/7/1976, n. 39 – Norme e criteri per la programmazione, gestione e controllo dei Servizi consultori ali, in relazione all’art. 4”. 




10.1) Anche tali doglianze sono inammissibili per carenza d’interesse a ricorrere in capo all’associazione ricorrente, atteso che le disposizioni del protocollo di cui con tali motivi di gravame viene contestata la legittimità sono, all’evidenza, rivolte direttamente e immediatamente alle singole donne (o, eventualmente, ai padri dei concepiti) e non alle associazioni di volontariato, venendo in rilievo l’esigenza di rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti, il diritto (della donna e, se da questa consentito, del padre del concepito) ad ottenere consulenza ed assistenza da personale in possesso di idonea qualificazione tecnico-professionale e tenuto al segreto professionale, nonché il diritto al trattamento per i soli fini di legge dei dati personali spontaneamente conferiti. 




10.1.1) Ciò non preclude, tuttavia, al Collegio di evidenziare alla Regione Piemonte l’esigenza di soffermarsi a riflettere sull’opportunità di esplicitare chiaramente nel protocollo che l’ammissione al convenzionamento e alla collaborazione con le ASL delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni del privato sociale è comunque subordinata alla previa verifica del possesso dei necessari requisiti di professionalità da parte del personale messo a disposizione (o, meglio, di quello, specificatamente e nominativamente indicato, che l’associazione si impegna a mettere a disposizione per la durata della convenzione di collaborazione), conformemente a quanto al riguardo stabilito dall’art. 5, comma 10, della L.R. 9 luglio 2006, n. 39, atteso – tra l’altro – che a nulla di diverso pare riferirsi la “idoneità” di cui parla l’art. 2, comma 2, della legge n. 194 del 1978 (“I consultori… possono avvalersi… della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato …”). 




10.1.2) Va da sé, inoltre, che i professionisti che volontariamente prestano la propria opera debbano prestare la propria collaborazione nel rispetto delle norme di legge vigenti, incluse quelle deontologiche proprie della specifica professione e quelle sul segreto professionale, e che essi e gli altri operatori delle associazioni eventualmente coinvolti debbano trattare i dati personali conferiti dagli utenti, compresi quelli sensibili e quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, nel rigoroso rispetto delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003 e per i soli fini previsti dalla legge n. 194 del 1978 e per quelli istituzionali dei consultori sotto il cui controllo e regia può venir attivata la collaborazione. 




10.1.3) Anche di un tanto sarebbe, peraltro, utile riportare un espresso cenno nel protocollo in questione. 




11) L’Associazione di cui viene ora scrutinato il ricorso ha dedotto, inoltre, la “Violazione dell’art. 3 della Carta Costituzionale”. 




11.1) l motivo è fondato e merita accoglimento. 




11.2) Il requisito soggettivo della “presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento”, previsto dal protocollo per l’inserimento negli elenchi formati dalle ASL delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni del privato sociale, s’appalesa, infatti, irragionevolmente discriminatorio e stabilito in assenza di specifiche esigenze di limitazione o differenziazione previste da altre norme costituzionali o di legge e tale da ledere la libertà di associazione della ricorrente. 




11.3) Risulta, invero, arduo comprendere la finalità di tale requisito, attesa la valenza meramente formale dello stesso e la sua palese inidoneità a dare, invece, contezza dell’effettiva sussistenza di adeguati requisiti tecnico/professionali in capo alle associazioni ed organizzazioni che ambiscono a collaborare, per i fini previsti dalla legge n. 194 del 1978, con le strutture pubbliche deputate a fornire consulenza ed assistenza alle donne in gravidanza. 




11.4) I requisiti di professionalità dovrebbero, infatti, essere i soli a governare le scelte delle ASL nell’individuazione delle strutture del volontariato/privato sociale da inserire negli elenchi in questione. 




11.5) L’irragionevolezza e l’arbitrarietà della sua previsione appaiono evidenti anche avuto riguardo alla circostanza che l’obiettivo esplicito del percorso previsto dal protocollo è quello di “dare massima attuazione a tutte le esigenze previste dalla legge 194/1978…” (vedi pt. 1 del Protocollo) e, quindi, non solo al diritto alla procreazione cosciente e responsabile, al valore sociale della maternità e alla tutela della vita umana dal suo inizio e all’esigenza di evitare che l’interruzione volontaria della gravidanza si trasformi in mezzo per il controllo delle nascite, ma anche e soprattutto al fatto che le associazioni del volontariato ammesse a collaborare con i consultori familiari sono, all’evidenza, tenute a svolgere a favore della donna in stato di gravidanza le specifiche attività di assistenza dettagliate all’art. 2, comma 1, della legge ovvero: 

a) ad informarla sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio; 

b) ad informarla sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante; 

c) ad attuare direttamente o proponendo all'ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a); 

d) a contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. 




11.6) Attività connotate, quindi, da particolare complessità, che possono venir espletate solo da persone in possesso di adeguati requisiti di professionalità. 




11.7) Pertanto, pur potendo legittimamente la Regione Piemonte, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovere e sviluppare i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie (art. 1 della legge), a tale obiettivo non sembra, tuttavia, rispondere la disposizione censurata. 




11.7.1) Essa subordina l’inserimento negli elenchi in questione ad un requisito di ordine meramente formale il quale viene in definitiva a costituire soltanto una incomprensibile e ingiusta barriera frapposta ad associazioni/organizzazioni potenzialmente in possesso di requisiti di carattere tecnico/professionale corrispondenti a quelli, assolutamente necessari, richiesti dalle norme di legge per l'esercizio dell’attività cui aspirano. 




12) L’Associazione ha, altresì, contestato la “Violazione di legge in relazione ai principi di trasparenza, lealtà, economicità, efficacia e pubblicità dell’azione amministrativa, sanciti dagli artt. 1 e 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241”. 




12.1) Il motivo è, in parte, infondato e, in parte, inammissibile. 




12.2) Osserva, invero, il Collegio che, le deduzioni al riguardo svolte dalla difesa dell’Associazione sono, sotto un primo aspetto, totalmente disancorate dalla realtà fattuale, in quanto il requisito soggettivo stabilito dalla Regione, pur appalesandosi irragionevole e discriminatorio, non è, allo stato, idoneo ad attribuire nessun specifico vantaggio alle strutture del volontariato privato che ne sono in possesso, dovendosi ovviamente attendere affinché ciò si possa eventualmente realizzare il compiuto perfezionamento di tutto il procedimento volto all’effettiva e concreta instaurazione delle collaborazioni ipotizzate dal legislatore e incentivate dall’Amministrazione regionale. 




12.3) Ne deriva, all’evidenza, l’assoluta infondatezza (se non, addirittura, l’inammissibilità per carenza di un interesse concreto ed attuale a ricorrere) della denunciata violazione dei principi di trasparenza, lealtà, non aggravamento del procedimento e pubblicità di cui all’ art. 1, commi 1 e 2, della l. 241/1990, atteso – tra l’altro – che a nessun particolare obbligo motivazionale poteva ritenersi tenuta la Giunta regionale del Piemonte, posto che, come noto, gli atti generali ne sono esenti e incontrano i soli limiti della congruità, imparzialità e ragionevolezza, che, però, nulla hanno a che fare con i vizi qui lamentati. 




12.4) E’ palesamente inammissibile, invece, per carenza d’interesse a ricorrere il lamentato mancato confronto con le varie componenti del Consiglio regionale, atteso che le prerogative dei consiglieri regionali e dei gruppi consiliari non sono, ovviamente, quelle della ricorrente associazione e vanno, all’occorrenza, azionati dai diretti interessati nei modi e nei tempi opportuni. 




13) A miglior sorte non è destinato l’ultimo motivo proposto (“Eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, illogicità, perplessità della motivazione, ingiustizia manifesta”), atteso che la genericità delle deduzioni al riguardo svolte e la carenza d’interesse a ricorrere in capo all’associazione ricorrente (la difesa dell’associazione continua, infatti, a confondere le prerogative degli enti associativi con quelle eventualmente spettanti alle singole donne interessate) rende lo stesso del pari inammissibile, fatta salva quella limitata parte dello stesso ove viene lamentato il contrasto tra la previsione della previa definizione di precisi requisiti organizzativi e il requisito soggettivo di cui già innanzi s’è detto, che pare apprezzabile seppur nei limiti precedentemente precisati nel corso del vaglio del vizio di violazione dell’art. 3 della Costituzione. 




14) Passando ora allo scrutinio del ricorso R.G. 11/2011, proposto dall’Associazione A.C.T.I.V.A. Donna, il Collegio non può che plaudere alla capacità della difesa di centrare, con poche e mirate argomentazioni, il vero punto dolente del protocollo ovvero la previsione del requisito soggettivo della “presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento” previsto per l’ammissione negli elenchi delle ASL delle organizzazioni del volontariato interessate a svolgere l’attività di collaborazione prevista dalla legge n. 194 del 1978. 




15) Il primo motivo di ricorso [“Violazione di legge: articoli 1 e 2 legge 23 maggio 1978, n. 194; violazione di legge: articoli 18 e 3 della Costituzione; violazione di legge quale carenza assoluta di motivazione (articolo 3 legge 241/1990); eccesso di potere; perplessità e irragionevolezza”], che, fatte salve le precisazioni di cui appresso, s’appalesa pacificamente fondato ha avuto il pregio, infatti, di fornire prezioso spunto al Collegio per sviluppare le argomentazioni svolte durante il vaglio della legittimazione e dell’interesse a ricorrere delle odierne ricorrenti, nonché quelle poste a supporto motivazionale della ritenuta fondatezza dell’unico motivo del ricorso R.G. 1529/1010 meritevole di accoglimento. 




15.1) In condivisione delle censure qui proposte, non possono, quindi, che ribadirsi le considerazioni già svolte, che così si riepilogano: 

- la legge n. 194 del 1978, laddove, all’art. 2, comma 2, prevede la possibilità per i consultori familiari “di avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”, non richiede alcun requisito soggettivo in termini di (statici) fini statutari, ma ovviamente rinvia ad una verifica di “idoneità” mirata ad accertare il possesso dei requisiti di carattere tecnico/professionale che, a norma dell’art. 5, comma 10, della L.R. n. 39 del 2006, costituiscono unico ed imprescindibile requisito per ammettere le strutture del volontariato privato a collaborare con quelle pubbliche, per legge deputate a farlo. E’ evidente, quindi, il denunciato contrasto della previsione del protocollo qui in discussione con l’art. 2 della legge, nonché con il principio enucleato nell’art. 3 della Costituzione, censure che, stante il loro carattere assorbente, consentono di prescindere dallo scrutinare gli ulteriori vizi al riguardo lamentati (violazione dell’art. 1 della legge n. 194, perplessità e irragionevolezza). Non appare in ogni caso, ultroneo ribadire che qualsiasi associazione, laddove ritenuta (professionalmente e tecnicamente) idonea a collaborare con le strutture pubbliche, è tenuta ad operare nel rigoroso rispetto delle disposizioni di legge e per il perseguimento dei fini dalla stessa riguardati, conformandosi agli indirizzi e alle direttive allo scopo forniti dalla strutture sotto la cui regia e controllo opera e ciò a prescindere da quali possano essere i suoi specifici fini statutari o l’appartenenza ideologica dei suoi organi di vertice. 

Ciò che dovrebbe essere reso vincolante è, infatti, l’assunzione del preciso obbligo di perseguire i fini di legge. 




15.2) Deve essere, invece, disatteso il dedotto difetto di motivazione, atteso che, come già precedentemente evidenziato, il protocollo in questione, quale atto a contenuto generale, si sottrae, a norma dell’art. 3, comma 2, della legge n. 241 del 1990, all’obbligo motivazionale. 




16) E’ da ritenersi inammissibile, infine, il secondo motivo (“Violazione di legge: in particolare decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, articoli 11, 29, 30 e da 31 a 35”), atteso che, come s’è già avuto modo di esplicitare durante lo scrutinio di una censura, pressoché analoga, proposta dall’Associazione Casa delle Donne, la dedotta violazione, oltre a non risultare connotata del carattere dell’attualità, s’appalesa, all’evidenza, azionabile dalle sole donne direttamente interessate (ovvero quelle i cui dati personali saranno effettivo oggetto di trattamento), che potrebbero assumere d’aver subito pregiudizio a seguito o a causa della mancata o inadeguata adozione da parte delle associazioni coinvolte nel processo di assistenza delle misure organizzative e di tutela previste dalla legge. 




16.1) Si ribadisce, in ogni caso, l’opportunità di far cenno nel protocollo degli obblighi e degli adempimenti previsti dalla legge in materia di trattamento dei dati personali. 




17) In definitiva, i ricorsi in esame vanno accolti nei limitati termini di cui in motivazione, fermo restando il rigetto o la declaratoria d’inammissibilità delle ulteriori censure svolte. 




18) Sussistono, in ogni caso, giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese e le competenze di entrambi i giudizi, in considerazione della particolarità delle questioni trattate. 

P.Q.M. 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione II, definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti, li accoglie nei limitati termini di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla il protocollo approvato con la deliberazione della Giunta regionale per il Piemonte n. 21-807 del 15 ottobre 2010, nella parte in cui prevede, tra i requisiti soggettivi minimi che devono essere posseduti dagli enti no profit per essere iscritti negli elenchi dell’ASL, “la presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento”, fermo restando il rigetto o la declaratoria d’inammissibilità delle ulteriori censure svolte 




Compensa tra le parti le spese e le competenze di entrambi i giudizi. 




Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa. 




Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2011 con l'intervento dei magistrati: 

Vincenzo Salamone, Presidente 

Manuela Sinigoi, Referendario, Estensore 

Antonino Masaracchia, Referendario 





L'ESTENSORE IL PRESIDENTE 









DEPOSITATA IN SEGRETERIA 

Il 15/07/2011 

IL SEGRETARIO 

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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