giovedì 14 luglio 2011

Quattro ragioni per cui la legge Calabrò mortifica la professione medica e istituzionalizza la prassi Englaro, di Giorgio Carbone, docente di bioetica presso la facoltà Teologica dell’Emilia Romagna14 Luglio 2011

Lettera al Direttore de 'Il Foglio': di Giorgio Carbone, docente di bioetica presso la facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

Al direttore - Non vorrei rompere le uova nel paniere di nessuno, ma non voglio neanche fare l’irenista a tutti i costi. E vista la posta in gioco non posso starmene zitto. Al di là delle nobili intenzioni dei proponenti e dei relatori parlamentari, il disegno di legge Calabrò, secondo il testo licenziato dalle commissioni della Camera dei Deputati nel marzo scorso e che dopo essere stato approvato martedì alla Camerà dovrà essere votato dal Senato, sembra essere una “grande trappola”. Non sta né a me né a te giudicare le intenzioni umane, ma ogni cittadino che ama il bene comune della nazione è chiamato a giudicare il contenuto di una proposta di legge, per ciò che essa dice e per ciò che essa non dice.

Gli argomenti usati per favorire tale disegno di legge sono molti, ne ricordo solo alcuni: esso eviterebbe altri casi Englaro; riconosce la vita umana come diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a); afferma che “alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita” (art. 3, c. 5).
Dobbiamo leggere il ddl Calabrò, non solo per le affermazioni di principio validissime e nobili, come quelle di cui all’art. 1, ma anche alla luce di ciò che è detto negli articoli successivi. Infatti, l’applicazione pratica della legge 194/1978 insegna che l’articolato di una legge speciale spesso limita o addirittura nega i principi solennemente affermati all’inizio. Inoltre, dobbiamo considerare anche ciò che il disegno normativo non dice. E, infine, ci dobbiamo immaginare degli esempi concreti di applicazione.

1. Estensione del caso Englaro
L’art. 2, c. 6 recita: “In caso di soggetto interdetto il consenso informato è prestato dal tutore che sottoscrive il documento”. L’art. 3, c. 3 recita: “Nella Dat può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Mentre all’art. 3, c. 5 si dice che: alimentazione e idratazione “devono essere mantenute fino al termine della vita” (si noti che nel testo licenziato dal Senato si diceva che “sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”; si noti anche che il testo ora in discussione dice “mantenute”, il che è diverso dal dire “devono essere iniziate”) e “non possono formare oggetto di Dat”.
Facciamo ora il caso di un padre-tutore di un paziente-interdetto di una patologia cronica, ma non in fase terminale, paziente che domani avrà bisogno della Peg per l’applicazione della quale si richiede intervento chirurgico poco invasivo con anestesia locale. Se il padre-tutore ha redatto le Dat in cui rinuncia a qualsiasi intervento che richiede anestesia anche locale, o a qualsiasi operazione chirurgica; per quanto la Peg sia finalizzata a idratare e alimentare, se il padre-tutore ha rinunciato e non dà il consenso all’intervento chirurgico, il medico coscienzioso non potrà fare nulla perché ai sensi dell’art. 2, c. 1 “Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole”. Si ripeterà così il caso Englaro.
Inoltre, ci sarebbe un’aggravante di gran lunga peggiorativa. Mentre Beppino Englaro per raggiungere il suo obiettivo ha dovuto ricorrere molte volte alla magistratura ordinaria, il disegno di legge conferisce al tutore un diritto soggettivo di dare il consenso o di esprimere una rinuncia e a questo diritto soggettivo corrisponde il dovere da parte di terzi di rispettarne l’efficacia. In ogni caso il titolare del diritto soggettivo potrà agire in giudizio per ottenere l’applicazione di quanto gli spetta.
Diciamo così: la prassi-Englaro, anziché essere eliminata o arginata, ottiene un riconoscimento giuridico generalizzato.

2. Silenzio circa ventilazione artificiale
Altro fatto significativo è il silenzio circa la ventilazione artificiale. Eppure si tratta sempre di atto di sostegno vitale finalizzato a lenire il dolore, conseguente alla sensazione di soffocamento.

3. La disponibilità della vita
Come ricordato, il ddl Calabrò riconosce la vita umana come diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a): grande affermazione di un principio cardine degli ordinamenti giuridici occidentali. Tuttavia, se è vero che dare rilevanza giuridica alle Dat e alla “rinuncia ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari” (così l’art. 3, c. 3) equivale ad ammettere che un cittadino possa disporre della propria esistenza fisico-corporea, allora il ddl Calabrò, conferendo rilevanza giuridico-sociale alla rinuncia a ogni trattamento sanitario giudicato sproporzionato, di fatto e di diritto cancella il principio dell’indisponibilità della vita fisico-corporea, affermato solennemente all’art. 1, c. 1, a.

4. L’identità del medico
Inoltre, l’art. 2, c. 1 recita: “Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole”. Oggi non vige questa norma, ma già per molti interventi diagnostici e terapeutici i medici ci chiedono il consenso, come è giusto che sia. Cosa cambia con l’introduzione di questa norma? Viene giuridicizzato il rapporto. Oggi è disciplinato dal Codice di deontologia medica. Domani sarà un rapporto giuridico di tipo contrattuale, opponibile a terzi, e soprattutto con quella norma viene meno l’obbligo terapeutico, assistenziale del medico, la cui contro-faccia è il reato di omissione di soccorso. E’ vero che l’art. 2, c. 9 recita: “Il consenso informato al trattamento sanitario non è richiesto quando la vita della persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per il verificarsi di una grave complicanza o di un evento acuto” (è il caso degli incidenti stradali); ma in tutti gli altri casi, dove il consenso è stato dato solo per qualche intervento, oppure è stato espresso un rifiuto, il medico non ha più l’obbligo giuridico di agire, pena il reato di omissione di soccorso.
Introducendo l’art. 2, c. 1, la causa legittimante l’atto medico diventerà esclusivamente il consenso del paziente. Mentre adesso, come è stato affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008, la causa che legittima il medico a intervenire sul paziente è innanzitutto la sua missione e la sua competenza professionale e poi il consenso informato.
La legge stravolge quindi ancora una volta l’identità della professione medica: da professionista che agisce in scienza e coscienza sulla base delle proprie competenze tecnico-scientifiche sarà ridotto a esecutore – o come dicono già in molti – operatore delle volontà altrui, anestetizzando così la propria coscienza professionale.

E’ vero che c’è bisogno di una legge, ma è sufficiente di un solo articolo: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica posso fornirle alla persona umana, sono doverose forme di sostegno vitale e finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”.

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