martedì 7 giugno 2011

Allarme cibi, due lezioni dal batterio «killer» di Fabio Spina, 07-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

La ricerca del posto da dove è partita l’infezione in Germania continua, al momento si contano 23 vittime e oltre 2mila contagi in Europa. Le certezze al momento sono poche, non si sa ancora chi è il “colpevole”, però possiamo comunque tentare di sviluppare due riflessioni.


La prima riguarda il ripetersi di allarmi dovuti alle nuove pandemie. Negli ultimi anni se ne sono riprodotte molte: l’influenza aviaria, la suina, l’H1N1, le uova alla diossina. Per la Sars si parlò di migliaia di morti ed invece furono 85, solo per l’Italia si prevedeva che avrebbe colpito 16 milioni di persone con 15mila vittime. Allora le previsioni erano accurate, le conferenze stampa si ripetevano continuamente, l’informazione copiosa. Si sapeva da dove l’infezione partiva e come si diffondeva. Tutto nasceva sempre da paesi lontani, dall’agricoltura arretrata dove l’uomo conviveva con le bestie. Le simulazioni matematiche portarono molti ad acquistare - meglio: accaparrarsi - vaccini per patogeni ancora da isolare. Da quanto accaduto sembra che siamo in grado di prevedere infezioni partite da lontano e come queste si sviluppano per lunghi periodi, mentre paradossalmente pur essendosi sviluppata qui vicino, non si riesce a comprendere da dove sia partita l’ultima epidemia e come si diffonderà a breve scadenza. Sembra che in quest’ultimo caso si brancoli nel buio. Come per la modellistica dell’atmosfera, sembra stranamente che sia più precisa quando deve prevedere lunghe scadenze rispetto quelle ravvicinate.

La seconda riflessione riguarda il modo in cui l’infezione si è sviluppata. All’inizio si sono incolpati i cetrioli spagnoli avendo, così si disse, rintracciato “il batterio in una partita di cetrioli provenienti da due aziende di agricoltura biologica di Almeria e Malaga”. Successivamente si è pensato che l’infezione fosse partita dai germogli di soia prodotti da una cooperativa di produzione biologica tedesca, che produce e distribuisce anche germogli e semi di altri ortaggi: tra cui quelli di fagiolo mungo, broccoli, piselli, ceci, ravanelli e lenticchie. Ora sembra che anche questa seconda azienda non sia colpevole anche se è stata fatta chiudere.

Ma perché si cerca sempre nelle produzioni biologiche? Sembra che in queste possano riprodursi quei “contatti” tra vegetali e scarti provenienti dalla produzione animale, come ad esempio il letame per la concimazione, che possono creare situazioni di potenziale rischio. Per questo è tassativo lavare la vedura. Insomma la nuova epidemia fa emergere che il rischio che sembrava legato solo ai paesi lontani, dove è presente un’agricoltura arretrata, può riprodursi anche nella progredita Europa e Germania, dove con le aziende biologiche di fatto si cerca di tornare al passato.


I  prodotti biologici non sono meno pericolosi di quelli convenzionali, il Robert Koch Institut ha comunicato che ogni anno in Germania dalle 150mila alle 200mila persone si ammalano per contaminazioni “in natura” di generi alimentari. Il Die Welt in questi giorni ha scritto che i decessi sul suolo tedesco ogni anno sono centinaia, in UK sono in media 700 decessi per contaminazione biologica del cibo, negli USA 5mila.

Nella realtà non esiste e quindi non va fatta la divisione ideologica tra il biologico che è sempre e comunque meglio del prodotto da agricoltura tradizionale. Va deciso con “razionalità” caso per caso. Il prof. Silvio Garattini scrive che i prodotti biologici hanno una sola caratteristica accertata, quella di essere molto più costosi di quelli che rappresentano il frutto dell’agricoltura moderna. Secondo Garattini, la differenza tra i tipi di prodotti è anzitutto di base ideologica e si riassume nello slogan: “la natura è buona, la chimica è cattiva”. In realtà in natura possiamo trovare i veleni, “fitofarmaci endogeni” e batteri micidiali, mentre con la chimica si producono i medicinali. La bontà o malvagità di un prodotto non dipende dall’origine artificiale o naturale del prodotto ma è una sua caratteristica intrinseca.

Appare quindi ingiustificato diffondere l’idea che i prodotti biologici abbiano qualità migliori e siano più sani. Ciò significa solo creare paure e frustrazioni nelle classi sociali a basso reddito che non possono accedere al miraggio dei prodotti biologici venduti come se fossero l’“elisir di lunga vita”.

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