domenica 5 giugno 2011

Neuroteologia: una nuova disciplina teologica o una nuova forma di manipolazione del linguaggio? di Alberto Carrara, da http://catholic.davide.it

Cosa ci fa una monaca carmelitana di clausura inginocchiata, con gli occhi chiusi in atteggiamento meditativo, collegata tramite decine di elettrodi ad uno strumento di elettroencefalografia?

Bella domanda, che se alquanto legittima, cela una risposta non per nulla semplice.

Nei fatti, numerose monache di clausura e monaci buddisti sono stati reclutati come volontari a partire dagli anni ’90 all’interno di studi sperimentali neuroscientifici sull’esperienza religiosa.


Bisogna ricordare che gli anni che vanno dal 1990 al 2000 sono stati “battezzati”, dal presidente degli Stati Uniti, “la decade del cervello”. Insieme all’entusiasmo giustificato per cercare di sviscerare in breve tempo tutti i misteri circa il nostro organo cerebrale, la decade 2000-2010 è stata testimone dell’impressionante crescita a livello di ricerca neurobiologica. Un tale sviluppo e progresso di portata globale, frutto certamente dell’interdisciplinarietà e della collaborazione tra le diverse discipline ed approcci scientifici, non è restato recluso all’ambito dei laboratori, ma ha letteralmente invaso la nostra quotidianità.

Oggigiorno la capacità tecnologica di visualizzare zone dell’encefalo che si attivano in modo differenziale in determinate circostanze, ha prodotto un vero e proprio fiume di studi sperimentali dei più variegati, sia per ciò che concerne le metodiche impiegate, sia per le più disparate finalità.

Lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, tra cui spicca la ormai famosa fRMN o risonanza magnetica funzionale, non ha potuto venir confinato alla mera, anche se utilissima, area clinica, utile alla diagnosi di patologie a livello cerebrale. Gli studi si sono moltiplicati a seconda della fantasia e della genialità creatrice di ciascuno scienziato. Per questo, dal voler comprendere i fondamenti neurofisiologici delle attività umane come la memoria, il linguaggio, la visione, la personalità, eccetera, si è passati a ricercare, come ben afferma José Manuel Giménez-Amaya, su «ciò che è più spiccatamente umano dell’uomo»: la sua esperienza religiosa (1).



(1) Cf. J. M. Giméz-Amaya, «¿Dios en el cerebro? La experiencia religiosa desde la neurociencia», Scripta Theologica 2 (2010), 440


Dato che in tutti i contesti sociali il suffisso neuro ha già preso piede allo scopo di promuovere, vendere, convincere, persuadere, etc., in una vera e propria neuromania (2), si è proposto e circola già, fianco a fianco a parole come neuroeconomia, neuropolitica, neurofilosofia, il termine neuroteologia.


Di che si tratta? Sopratutto, cosa ci rivela la neuroscienza su Dio e sulla nostra naturale tendenza al trascendente?

In primo luogo bisogna considerare brevemente alcuni degli esperimenti realizzati in quest’ambito per poter poi giudicare le conclusioni e le interpretazioni che portano avanti a livello mediatico alcuni scienziati contemporanei.

Il dottor Mario Beauregard, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Montreal in Canada, ha pubblicato nel 2006, sul numero 405 di Neuroscience Letters, un articolo sui correlati neuronali dell’esperienza religiosa. Gli esperimenti descritti comprendevano monache carmelitane di clausura, perfettamente sane, alle quali era stato chiesto di ricordare esperienze mistiche d’unione con Dio sperimentate durante la preghiera. Durante la reminiscenza, gli scienziati registravano le attività cerebrali delle sorelle attraverso l’impiego della fRMN e dell’elettroencefalografia. Due anni dopo, nel 2008, lo stesso scienziato canadese pubblicò sulla stessa rivista, un lavoro che riassumeva i dati di elettroencefalografia ottenuti durante l’esperienza mistica.

Le conclusioni di questi studi sperimentali, come di altri lavori che non è qui possibile menzionare nel dettaglio, portarono a concludere che durante l’esperienza religiosa numerose regioni cerebrali vengono attivate e coinvolte, particolarmente a livello della corteccia cerebrale. Ciò implica una rete neuronale complessa, cognitivamente strutturata, che coinvolge l’attivazione rilevante (in confronto con uno standard, cioè con i dati estrapolati da monache che non stavano pregando) della famosa AAA (Attention Association Area), locus cerebrale associato alla concentrazione. Gli scienziati evidenziarono inoltre la riduzione dell’attività della OAA (Oirentation Association Area) o zona dell’associazione e dell’orientamento spaziale. Già nel 2004 Olaf Blanke del Dipartimento di Neurologia di Ginevra (Svizzera), aveva pubblicato sulla rivista Brain, un interessante lavoro sull’implicazione di tale locus cerebrale e l’esperienza extracorporea detta anche out-of-body experience (3).  

Come dati scientifici questi ed altri lavori ci rivelano semplicemente che: durante un’esperienza spirituale diverse e numerose aree del nostro cervello vengono modulate (si attivano o vengono inibite in confronto con un parametro standard).



(2) Cf. P. Legrenzi – C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna, 2009.
(3) Cf. O. Blanke (et Al.), «Out-of-body experience and autoscopy of neurological origin», Brain 127 (2004), 243-258.



Ciò che viene misurato non è affatto l’esperienza mistica in sé, ma l’intensa attività intellettivo – volitiva che l’accompagna. La ricchezza dell’esperienza religiosa, naturale in tutti gli esseri umani, si manifesta nella nostra dimensione corporea a livello delle complesse reti neuronali in gioco. 

Dal dato scientifico molto spesso alcuni passano alla sua interpretazione fino ad arrivare a vere e proprie manipolazioni. Così il dottor Andrew Newberg dell’Università della Pensilvania a Filadelfia (Stati Uniti), compiendo gli stessi esperimenti con monaci buddisti e francescani, giungendo agli stessi dati empirici, scrisse un libro intitolato Dio nel cervello (God in the brain, Why God Won’t Go Away), nel quale riduce l’esperienza religiosa a puro prodotto materiale del nostro cervello. Newberg e altri neuroriduzionisti interpretano i dati sull’esperienza del trascendente come se il cervello stesso ne fosse la causa diretta e ultima. Si potrebbe allora concludere come fa il “padre” della neuroscienza contemporanea, Michael S. Gazzaniga: se il nostro cervello produce l’esperienza religiosa, Dio sta nel cervello e, in fin dei conti, il cervello diventa Dio. Semplice, quasi ci troviamo dinanzi ad un sillogismo perfetto. Questa visione fu divulgata con successo dallo spagnolo E. Punset nel suo libro L’anima è nel cervello.

La verità è, sfortunatamente per questo tipo di scienziati (che rappresentano un’esigua minoranza che però fa clamore), che i dati neuroscientifici non ricercano direttamente l’esperienza umana di Dio, ma cercano di identificare le basi neurofisiologiche associate alla fenomenologia di qualsiasi esperienza religiosa.

Le false ed ambigue interpretazioni dei risultati a livello di immagini di risonanza magnetica funzionale non vengono spesso facilmente smascherate dal gran pubblico non esperto. Per questo, all’ora di interpretare i dati è necessaria una buona dose di prudenza e molto equilibrio. Bisogna ricordare che l’esperienza umana, proprio per essere “umana”, si caratterizza per la sua ricchezza e complessità.

Torna qui a proposito alla memoria un’affermazione importante di Tommaso d’Aquino, oggi come mai attuale nel contesto della riduzione della persona umana a semplice materialità: «hic homo singularis intelligit» (S. Th. I, q.76, a.1, c.), è quest’uomo colui che pensa. Non è il suo cervello che realizza l’esperienza di Dio, ma è egli stesso, nella sua totalità, che si mette in contatto con una realtà non misurabile empiricamente.

Una verità non può essere rinchiusa e limitata all’interno di un apparecchio di risonanza magnetica, nemmeno se “funzionale”. Per il filosofo viennese Günther Pöltner, questo approccio alla vita pratica portato avanti a più riprese da Tommaso, rappresenta un contributo al contemporaneo dibattito impregnato di riduzionismo psicologico e neurologico. Concludendo, se con il termine Teologia, intendiamo, come d’altronde sempre si parlò, intellectus fidei (scientia fidei o fides quaerens intellectum), quella scienza, quella conoscenza sul Fondamento ultimo di tutto, cioè su Dio alla luce della fede, allora non resta dubbio alcuno sull’inopportunità del concetto neuroteologia.

Ciò che attualmente si intende per neuroteologia è una riflessione sui risultati neuroscientifici frutto dell’esperienza intellettivo – volitiva religiosa o mistica. Al posto di neuroteologia sarebbe più corretto impiegare un altro termine, per esempio quello di neurofenomenologia dell’esperienza religiosa, così da non creare il dubbio di aver coniato un’altra sottodisciplina teologica. 

Come ben mette in evidenza José Manuel Giménez-Amaya nel suo articolo Dio nel cervello? L’esperienza religiosa da parte della neuroscienza, la Teologia svolge la «funzione guida come esigenza del pensiero». Dato che «la scienza, in generale, è un sapere fondato, cioè, le cui premesse ci risultano note in precedenza» e dato che «la stessa idea di scienza rimanda all’esistenza di un fondamento ultimo di tutto ciò che vi è», allora «è qui dove si mette in gioco la Teologia come sapere che studia il Fondamento ultimo di tutta la realtà»(4).

Bisogna aprire pertanto a tutta la potenzialità della nostra razionalità e non ridurla alla dimensione del nostro organo cerebrale.



(4) Cf. J. M. Giméz-Amaya, «¿Dios en el cerebro? …, 446

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