domenica 5 giugno 2011

STORIA DI STEFANO, MORTO IN UNA CASA PROTETTA di Privitera Chiara Riformista di domenica 5 giugno 2011

«Un muro di omertà, indifferenza e insensibilità». Sono i sentimenti a farsi sentire per primi nelle parole di Rossana La Monica, la sorella del giovane Stefano Biondo affetto da insufficienza psichica e morto lo scorso gennaio in una casa protetta di Via Madonie a Siracusa. Un caso forse di malasanità su cui la magistratura ha avviato un'inchiesta per omicidio colposo e sulla quale si sta ancora indagando.

Nel 2008 Stefano inizialmente ricoverato al reparto di Psichiatria dell'Umberto I in regime tso (trattamento sanitario obbligatorio), degenza poi trasformata in ricovero ordinario e protratto per mesi e mesi. Un ambiente non idoneo alla sua patologia e non in grado di risolvere i problemi del ragazzo. In questo periodo l'Asl, che aveva istituito un'apposita commissione d'intesa con il Dsm (Dipartimento di salute mentale) per stabilire - assieme al protocollo riabilitativo - anche se il paziente fosse di tipo psichico o neurologico, di fatto suggerì solo che Stefano dovesse rimanere nella struttura dell'Umberto I in attesa di un altro luogo più idoneo. «In realtà andò così per circa due anni», racconta la sorella al Riformista «perché tutte le Case protette interpellate davano sempre parere negativo una volta scoperto che si trattava di "Stefano  Biondo"». La motivazione addotta, sistematicamente, era «il paziente rompe gli equilibri » per cui le strutture si dichiaravano incapaci di gestirlo. Un calvario da cui la sorella di Stefano pare essere riuscita a emergere nel gennaio del 2011 quando, tramite il provvedimento del giudice Milone e del tribunale di Siracusa, al sindaco e ai dirigenti dell'Azienda sanitaria provinciale viene intimato di i trovare una collocazione idonea al ragazzo. La struttura è quella della casa famiglia nel quartiere Epipoli, dove Stefano rimarrà solo per 36 ore. «Il 25 gennaio quella telefonata», ricorda Rossana. L'infermiera la chiama dicendole che il fratello aveva avuto una delle sue crisi, quindi la corsa dei familiari e poi la scena più agghiacciante: «mio fratello era buttato a terra con i polsi legati da un cavo elettrico e non dava segni di vita». Il dolore di Rossana non le impedisce di essere lucida e dettagliatamente racconta quegli ultimi momenti insieme al Stefano. Lo stato del fratello, spiega - l'infermiere presente, è dovuto ad una pesante dose di calmante ma Rossana, che all'epoca aveva frequentato un corso di primo soccorso, perce1 pisce che qualcosa non va. r «Non sentivo il / polso carotideo», racconta, «ho iniziato il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca», intanto arriva l'autoambulanza ma «con mezz'ora di ritardo e senza l'attrezzatura necessaria per la rianimazione». Quindi inutilmente. Il sospetto, quindi, è anche che il centralino del 118 non sia stato avvertito del fatto che si trattasse di un codice rosso: arresto cardiaco respiratorio. Stefano moriva così a soli 21 anni in una "casa protetta" e le motivazioni, cosa gli sia capitato in quei pochi minuti, perché avesse i polsi legati da un cavo elettrico e perché il personale infermieristico presente non sia intervenuto per tempo, restano ancora da capire. La commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori sanitari ha chiesto all'assessore regionale, Massimo Russo, una relazione dettagliata e il Presidente della Commissione nazionale, Leoluca Orlando, ha trasmesso la richiesta alla Regione per acquisire ogni elemento utile a far luce sulla tragica vicenda. Anche il Presidente della Commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, ha chiesto l'invio dei Nas e di acquisire la cartella clinica del giovane per poter aver un quadro più dettagliato della vicenda. Dure le sue parole: ha parlato di violazione del diritto costituzionale alla salute e di mancanza di pietà umana nei confronti di un malato. Sono passati 33 anni da quando la lotta di Franco Basaglia, per un trattamento psichiatrico più dignitoso verso i pazienti, divenne normativa (la legge 180). Una rivoluzione per l'Italia, dove i manicomi erano più simili a prigioni che a luoghi dove una persona poteva sperare di guarire, accompagnata da un'idea innovativa: nuove impostazioni cliniche che avessero al centro di tutto i diritti dei  pazienti. Ogni Regione ha organizzato e gestito in modo autonomo l'applicazione di quella legge (che demanda al territorio l'organizzazione dell'assistenza) con il risultato di un'azione "a macchia di leopardo" dove a contesti di eccellenza si affiancano realtà insufficienti e inefficaci. La famiglia di Stefano, intanto, aspetta di conoscere la verità ma «non permetterò che questo tempo faccia calmare le acque, - promette Rossana - giornalmente invio mail, raccolgo articoli che parlano di mio fratello, e continuerò a farlo perché niente venga insabbiato».

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