Avvenire.it, 29 maggio 2011 - L'INTERVENTO - Fede e ragione: la sconfitta di Heidegger
Premetto la mia inadeguatezza a questo tema e specialmente a trattarlo con voi: non ho infatti alcuna vera formazione scientifica, mentre per la filosofia e la teologia sto cercando di ricuperare una pausa di 25 anni. Ho però sempre avuto un grande interesse alle scienze, come terreno fondamentale del confronto tra fede e ragione oggi; inoltre i miei studi si concentrano attualmente sulla questione di Dio, che per sua natura ha a che fare con tutto l’umano, inclusa la comprensione delle scienze. Vi esporrò dunque, con poca organicità, alcune idee e convinzioni che mi sembrano significative. La prima di esse riguarda l’importanza delle scienze, che emerge di continuo nella nostra vita. Sappiamo tutti, inoltre, che le scienze, e gli uomini di scienza, hanno oggi un grande peso presso l’opinione pubblica, tanto che si parla di una loro leadership culturale. Ma io mi riferisco a qualcosa di diverso e, per così dire, di più intrinseco: i procedimenti euristici che caratterizzano le scienze moderne ci consentono una nuova e più precisa conoscenza dell’indole e dei modi di procedere della nostra intelligenza. Sono quindi assai rilevanti per la gnoseologia e in genere per la filosofia. Se è vero che la riflessione sulle scienze moderne consente alla ragione una nuova e più approfondita comprensione di se stessa, ne risulta confermata l’indole storica della nostra ragione, nel senso del suo progressivo rivelarsi a se stessa.
Una seconda considerazione, in certo senso complementare alla prima, è che il rapporto della fede, e della teologia, con le scienze ha bisogno di essere mediato dalla filosofia: in concreto da un esercizio della ragione filosofica che, da una parte, è «interno» alla teologia, poiché la teologia è fides quaerens intellectum; dall’altra parte deve essere autonomo rispetto alla fede e alla teologia, perché la filosofia è autonoma o non è filosofia. Qui ci imbattiamo però nella celebre obiezione di Heidegger (nella sua Introduzione alla metafisica), secondo la quale l’«interrogarsi» proprio della filosofia e il «credere» proprio della teologia sono due atteggiamenti che si escludono reciprocamente, perché il credente non può porsi la domanda fondamentale della filosofia («Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?») senza rinunciare al suo atteggiamento di credente.
Egli può solamente comportarsi «come se» si interrogasse, dato che ha già nella fede la risposta a quella domanda, che per lui è dunque superflua. In realtà questa tesi di Heidegger dimentica ciò che distingue la fede autentica dal fanatismo e dal convenzionalismo, ossia l’amore per la verità e la ricerca sincera di essa, la sincerità con noi stessi. Il credente può conservarsi cioè coerente con la propria fede soltanto se si chiede senza finzioni che cosa crede e perché crede. La fede, dunque, non solo rimane aperta alla domanda radicale della filosofia ma, pur dandole una precisa risposta, al tempo stesso la ripropone continuamente al proprio interno. Già san Tommaso, del resto, afferma che il credere è atto dell’intelletto, avendo per oggetto il vero, la verità divina, ma precisa contestualmente che tale atto si compie per il comando della volontà mossa dalla grazia di Dio e attratta dal bene della vita eterna promessa al credente. Perciò è caratteristico della fede che in essa l’assenso e l’indagine procedano «quasi ex aequo»: l’assenso fermissimo dell’intelligenza alla verità, provenendo non dall’evidenza intrinseca di ciò che si crede ma dalla decisione della volontà, lascia infatti spazio all’ulteriore indagine e all’inquietudine intellettuale. In certo senso, san Tommaso ha dunque prevenuto il problema sollevato da Heidegger. (...)
Torniamo ora a riflettere sui rapporti tra la fede e la ragione, accolta e valorizzata in questa sua ampiezza. Al riguardo mi ritrovo pienamente nella posizione di Joseph Ratzinger, secondo il quale il razionalismo ha fallito nel suo tentativo di dimostrare le premesse della fede – i praeambula fidei – mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede, e sono ugualmente destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi. A sua volta, però, è fallito il tentativo opposto di Karl Barth di concepire la fede come un puro paradosso, che può sussistere solo in una totale indipendenza dalla ragione. In realtà «la ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana». Dobbiamo dunque sforzarci di costruire un nuovo rapporto tra fede e ragione, fede e filosofia, perché esse hanno bisogno l’una dell’altra. Ciò non comporta alcuna confusione tra fede e ragione, teologia e filosofia, e tanto meno un circolo vizioso che volesse dimostrare la ragione con la fede e la fede con la ragione. Si tratta piuttosto di tener presente, anche qui, l’unità del soggetto umano, razionale, libero e credente.
Di fronte a quella dicotomia che nell’epoca moderna tende spesso a instaurarsi tra l’«oggettività» della ragione e la «soggettività» della fede, va ricordato, come sottolineava già Hegel (sia in Credere e sapere sia nell’Introduzione alla storia della filosofia), che la frattura, o l’antagonismo, tra soggettività e oggettività costituisce forse il più grave problema della stessa epoca moderna: un problema che oggi abbiamo più che mai bisogno di lasciare alle nostre spalle, superandolo a partire dalla struttura stessa del soggetto umano, con la sua apertura all’essere e al dono della fede. (...) La nascita e lo sviluppo delle scienze moderne ha portato inoltre con sé un radicale cambiamento dell’immagine sia dell’universo sia anche dell’uomo, cambiamento con il quale la riflessione filosofica non può non confrontarsi.
In concreto, la filosofia è divenuta esistenziale e storica, considera l’uomo non solo secondo le sue strutture essenziali bensì nella concretezza del suo vivere e morire: pur essendosi assai allontanata e spesso contrapposta alla teologia, almeno da questo punto di vista essa è diventata in certo senso più affine alla teologia stessa. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Dives in misericordia (n. 1), ci ha offerto un criterio di grande validità ed efficacia per il nostro rapportarci al pensiero moderno. Scrive infatti: «Mentre le varie correnti del pensiero umano sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda». E aggiunge: «Questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante del magistero dell’ultimo Concilio». Così è superata in radice la visione catastrofale della modernità antropocentrica – alla quale la nostra filosofia e teologia hanno dato nel passato uno spazio troppo grande –, a condizione però di cambiare segno all’antropocentrismo, rendendolo non alternativo ma tendenzialmente coincidente con il teocentrismo. (...)
Charles Taylor, nel suo libro L’età secolare, sostiene con buoni argomenti che, sebbene non esista alcun rapporto automatico tra modernità e perdita o diminuzione della fede in Dio, si è verificato tuttavia nella società occidentale un cambiamento decisivo, che ha raggiunto dimensioni di massa verso la metà dell’Ottocento, e che consiste nel passaggio da una società nella quale era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto credere in Dio è solo una possibilità umana – un’opzione – tra le altre».
La ragione fondamentale di questo passaggio per Taylor non è principalmente di ordine teoretico, ma è consistita nell’affermarsi, nella vita concreta personale e sociale, di un «umanesimo esclusivo», per il quale la piena realizzazione di noi stessi, il «fiorire dell’uomo» non ha più bisogno di Dio o riferimento a Dio. A una sfida di questo genere non si può rispondere limitandosi a criticare la sensibilità attuale, mettendone in evidenza gli indubbi limiti e contraddizioni. Bisogno soprattutto attingere alla ricchezza della proposta cristiana su Dio e sull’uomo per offrire a questa sensibilità una possibilità di realizzazione ben più piena e più grande. In concreto, la cosiddetta «riduzione dei desideri» sembra essere la via imboccata dalla nostra civiltà, in maniera sempre più chiara e consapevole negli ultimi decenni. Rinunciamo, cioè, a soddisfare quell’«anelito di pienezza» che portiamo dentro di noi, per prendere invece atto della nostra precarietà e finitezza, adeguando ad esse i nostri obiettivi e le nostre attese. In questo modo però il «fiorire dell’uomo» non può essere che un fiorire molto modesto, difficilmente attraente e tanto meno appagante, specialmente in un tempo come il nostro nel quale le esigenze del soggetto sono esaltate al di là di ogni limite ragionevole. Vi è in tutto ciò una logica profonda: se Dio non esiste e l’uomo è solo nell’universo, viene semplicemente dalla natura e alla natura ritorna – una natura che non sa niente di lui e non si cura di lui –, è difficile pensare che sia possibile soddisfare in qualche modo il nostro «anelito di pienezza».
Non per caso, dunque, la post-modernità ha sviluppato una critica spesso spietata (valida da un lato, troppo radicale e «nichilista» dall’altro) nei confronti della modernità, anzitutto riguardo alla sua pretesa di autosufficienza del soggetto umano. I credenti hanno nel Dio che è intelligenza e amore, e che ha pronunciato in Gesù Cristo un sì definitivo nei confronti dell’umanità (cfr. 2Cor 1, 17-22), la base per aprire la loro vita a desideri più grandi, per coltivare, insieme all’umiltà, la virtù della magnanimità, che non teme di puntare ad obiettivi anche molto alti. E ciò riguarda ciascuno di noi, dentro le coordinate concrete della sua esistenza. Riguarda le scelte di vita ma anche, e non meno, le idee e i convincimenti (da questo punto di vista l’analisi di Taylor è un po’ unilaterale e può essere ben integrata, ad esempio, con le riflessioni di Rémi Brague, La Saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’Universo, come riconosce lo stesso Taylor). Riguarda in maniera peculiare chi, come voi, oggi intende dedicarsi alla ricerca scientifica nell’ampio orizzonte aperto dalla fede nel Dio di Gesù Cristo e da una razionalità non ristretta. L’augurio, e la preghiera, con cui vorrei terminare è che ciascuno di noi non abbia paura e non esiti a motivare e «saldare» il suo lavoro quotidiano con quella fiducia in Dio che rende possibile essere generosi con noi stessi e con gli altri.
Camillo Ruini
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