Business & biotech - «Sull’uomo non c’è brevetto» - Il nuovo parere del Dipartimento di Giustizia Usa vieta al ricercatore che scopra un gene o un batterio di utilizzarlo in regime di monopolio, ricavando profitto dalla sua vendita di Viviana Daloiso – Avvenire, 4 novembre 2010
Segna senz’altro una battuta d’arresto, nel campo del business biotech, il parere espresso qualche giorno fa dalla commissione istituita dal Dipartimento di giustizia statunitense sui brevetti. Che d’ora in poi – se l’autorevole opinione verrà recepita dall’Ufficio incaricato – non potranno più essere rilasciati sui geni. Che cosa significa? È presto detto: che il corpo umano e le sue parti non se lo inventa nessuno. E se a qualcuno questa sembrerà la scoperta dell’acqua calda, allora bisogna fare un salto nel tempo e nello spazio, all’America delle libertà e della corsa forsennata al progresso scientifico degli Anni ’80, quando la terapia genica è entrata nella new economy e le società che la praticavano hanno cominciato a quotarsi in Borsa.
È cominciata allora la pioggia di domande di brevetti sui geni: la Corte Suprema degli Stati Uniti dette ragione alla General Electric, che aveva chiesto quello per un batterio in grado di ripulire i mari e le coste dai residui dei disastri petroliferi. In dieci anni le richieste erano già migliaia: obiettivo, guadagnare. O meglio, privatizzare la vita e metterla in distribuzione sotto forma di proprietà intellettuale tra istituzioni commerciali. Già, perché ottenere un brevetto su un gene, un batterio, la parte di un essere vivente, significa istituire un regime di monopolio in cui il primo a brevettare una sequenza genica o un procedimento biotecnologico può impedire a chiunque altro di farne uso in qualunque modo o, vero scopo, esigere diritti illimitatamente alti per concederne l’utilizzo.
Un esempio «made in Usa» riguarda la multinazionale Biocyte, che ha ottenuto il brevetto sulle cellule del cordone ombelicale: nel territorio americano, se un medico vuole usare queste cellule a scopi chirurgici o per una trasfusione, deve pagare i diritti alla Biocyte. E questo – si badi bene – nonostante la Biocyte abbia semplicemente isolato congelato le cellule sanguigne, senza introdurre alcun cambiamento nel sangue stesso.
Ma il vero protagonista della corsa imprenditoriale alla brevettazione dei geni, negli ultimi anni, è stato senz’altro Craig Venter, il «padre» della vita artificiale. Che ha avuto l’unico, ingegnoso merito (come bene abbiamo sottolineato anche nel numero di è Vita del 27 maggio scorso) di chiedere e ottenere brevetti di ogni sequenza di geni individuata durante la mappatura del
Agenoma. Spesso ancor prima – come molti dei suoi colleghi gli contestavano, quando ancora lavorava all’Istituto nazionale di sanità – di conoscerne le possibili funzioni o applicazioni. llora la «mania» del genetista sembrava quasi priva di significato: eppure in poco più di dieci anni Venter e la sua società privata (che proprio nei giorni scorsi ha registrato un boom del 30% dei guadagni) ha ottenuto la «patente» per migliaia di frammenti di dna, trasformandoli in proprietà esclusiva da vendere a carissimo prezzo nel settori farmaceutico, chimico e dell’agro business. Oggi anche lui si dovrà arrendere all’illuminata marcia indietro della giustizia statunitense, che sembra poter mettere ordine in un campo già pericolosamente compromesso, stabilendo la possibilità di ottenere brevetti solo nel caso si scoprano terapie o usi particolari di determinati geni.
Ovviamente le aziende di mezzo Paese sono già in rivolta. Il primo settore colpito sarò quello dei test diagnostici, che impazzano Oltreoceano (e non solo) e i cui costi sono elevatissimi proprio perché spesso monopolizzati da chi ha individuato i geni che ne sono protagonisti (è il caso proprio dell’azienda finita nel mirino del Dipartimento di giustizia, la Myriad Genetics, che deteneva l’esclusiva sui geni responsabili del cancro alle ovaie e al seno). Poi verrà il resto, vita artificiale compresa.
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