La negazione della Legge Naturale, o il regno dell’arbitrio - 20 dicembre 2012 - http://www.prolifenews.it
La legge positiva che non rispetta la legge naturale non è vera legge
Tra le implicazioni filosofiche connesse a una legge come la L.194/1978 vi è sicuramente quella del rapporto tra potere del legislatore e il limite che questo potere trova in una realtà preesistente alla volontà del legislatore. Le esperienze terribili dei totalitarismi del ‘900 hanno spinto alcuni filosofi del diritto a rivalorizzare, giustamente, una dottrina quasi dimenticata: la dottrina del diritto naturale classico. Cosa differenzia questa dall’opinione direttamente contraria, cioè quella del positivismo giuridico? Il riconoscimento della “relatività”, o “non-assolutezza” della volontà del legislatore. Ancor più precisamente: il riconoscimento del fatto che la legge positiva, per essere vera legge, deve rispettare un dato oggettivo, assoluto, che le è anteriore. Questo dato è “la natura”. Potremmo dire semplicemente: “la realtà delle cose”. Per dare un esempio concreto, il legislatore non può svegliarsi una mattina e decidere che le persone bionde non sono più soggetti di diritto. Perché? Perché la sua volontà non è assoluta, ma condizionata da qualcosa di preesistente, un “dato di fatto”, il quale esige che una certa realtà, denominata “persona”, sia soggetto di diritti.Questo ancoraggio alla realtà delle cose ci salva da una grossa calamità: l’arbitrarietà del diritto.
Arbitraria, perché poneva un discrimine non fondato nella realtà delle cose, fu la storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1857, la quale stabilì che “i negri, a norma delle leggi civili, non sono persone […] non hanno alcun diritto o privilegio tranne quelli che preferisce loro concedere chi detiene il potere e il governo […] i negri sono tanto inferiori da non avere alcun diritto che l’uomo bianco sia tenuto a rispettare”. Arbitraria, per andare al biologismo nazista, fu la sentenza del tribunale di Lunéville che nel 1937 dichiarò l’aborto essere punibile solo quando il feto fosse di razza ariana.
Detto questo, come non scorgere l’arbitrarietà nelle legislazioni mondiali che attualmente disciplinano l’aborto? Dove sta la ragione oggettiva, in virtù della quale la vita di un bambino non dovrebbe essere tutelata in Italia prima dei 90 giorni (legge 194/1978, art. 4), o meglio, prima che sussista la possibilità di vita autonoma del feto (art. 7), mentre in Inghilterra non è tutelata prima delle 24 settimane (Abortion Act, 1967, emendato nel 1990)? Perché il pieno diritto alla vita si acquisisce prima in Svizzera (12 settimane: cfr. codice penale, art. 119) che in Svezia (18, o meglio, 22 settimane, cfr. SFS 1974/595), o prima in Francia (10 settimane, cfr. legge del 1975) piuttosto che in Giappone (28 settimane, sin dalle leggi 1949)? E se si può decidere che il diritto alla vita si acquisisce a 13 piuttosto che a 24 o a 28 settimane, perché non dopo la nascita (come taluni cominciano ad ipotizzare)? Perché non privare di questo diritto determinate categorie di persone per le loro caratteristiche fisiche, psicologiche o razziali?
Sono queste le tristi contraddizioni in cui si perde la legge che pone un discrimine, una discontinuità, dove, in realtà, non c’è. Il discrimine, la discontinuità, in quel processo continuo che è la vita di un essere umano, non coincide con la mezzanotte dopo l’ottantaquattresimo, il novantesimo o il centosessantottesimo giorno dal concepimento. Il discrimine, la discontinuità in quel processo c’è, invece, nella realtà delle cose, al momento del concepimento, quando comincia ad esistere un nuovo individuo della specie umana.
di Alessandro Fiore
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