L’identità dell’uomo e i limiti delle teorie darwiniane - È la qualità che
fa la differenza - Pubblichiamo un estratto dal volume Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito
attuale (Milano, Jaca Book, 2012, pagine
160, euro 14) - L'Osservatore Romano, 20 dicembre 2012
di FIORENZO FACCHINI
Quando si affronta il tema della
evoluzione ciò che riguarda l’uomo assume sempre un particolare interesse.
Ammettere che anche noi abbiamo una storia che ci ha preceduti non come uomini,
ma come membri di un raggruppamento animale suscita non di rado qualche
difficoltà. Nello stesso tempo riconoscere le origini animali dell’uomo per
taluni ha come conseguenza ovvia che siamo animali come gli altri. Alcuni
aggiungono l’aggettivo culturale a indicare qualcosa che caratterizza l’uomo e
che gli animali non possiedono. Aristotele parlava di animal ra t i o n a l e , fornito di ragione.
Ma vi è una fitta schiera di antropologi, zoologi ed etologi che accentuano la
condizione biologica che accomuna l’uomo con gli animali e vogliono mettere in
ombra o non riconoscere la specificità umana. Scimmia nuda, secondo Desmond Morris,
scimmia più intelligente, secondo altri. Nulla di più. Si ha l’impressione che
alcuni abbiano quasi pudore a riconoscersi uomini, differenti dagli animali, il
timore di cadere in un sorta di etnocentrismo. Notava Simpson (1951) «sembra
quasi che l’uomo debba scusarsi di essere un uomo o di pensare, come se si
trattasse di un peccato originale, o che un punto di vista antropocentrico nella
scienza o in altri campi del pensiero sia automaticamente falso». Questo
atteggiamento appare più ideologico che scientifico, si ispira a una filosofia decisamente
riduzionista. Quando si vuole parlare di una specie è importante riconoscerla
nella sua identità, in ciò che la caratterizza e la distingue da altre. Ciò va
fatto tenendo conto del dato biologico e del comportamento. Certamente la
continuità è la categoria che meglio si adatta al pensiero darwiniano sulla
evoluzione delle specie. Il concetto di continuità si lega a quello di gradualità
evolutiva. Nel caso particolare dell’uomo la continuità potrebbe suggerire
differenze soltanto di grado fra l’uomo e l’animale. Ciò è affermato da Darwin
nella sua opera L’origine dell’uomo (1871). Questa affermazione appare più
propriamente di carattere filosofico, nella linea del naturalismo
riduzionistico e non tiene adeguatamente conto di ciò che è specifico del
comportamento umano, che appare qualitativamente diverso, perché caratterizzato
dalla cultura, pur nella continuità biologica tra ominide non umano e uomo. I
più antichi rappresentanti del genere Homo sono riferiti a Homo habilis /
rudolfénsi che realizzavano industria olduvaiana. Il passaggio a un livello più
evoluto (maggiore capacità cranica, una certa robustezza nel cranio e nella
mandibola) porta alla specie Homo erectus,
che per l’Africa viene chiamata e
rg a s t e r (artigiano) a partire circa da 1,6 milioni di anni fa. Con e rg a s t e r l’industria litica si fa più
elaborata. Continua quella su ciottolo e compaiono i bifacciali, caratterizzati
da lavorazione su entrambe le facce e sui margini, rivelatrice che il concetto
di simmetria era posseduto dal suo artefice. La forma moderna o Homo
sapiens, ha le sue radici in Africa e
appare intorno a 150.000 anni fa. L’uscita dell’uomo moderno dall’Africa è
avvenuta, forse in diverse ondate, fra 150.000 e 60.000 anni fa. L’uomo
anatomicamente moderno si diffonde in Europa dal Vicino Oriente intorno a
40.000-30.000 anni fa e piuttosto rapidamente sostituisce i neandertaliani per fattori
ancora non bene conosciuti. Ma è soprattutto sulle discontinuità che può essere
sviluppato il discorso per cogliere l’identità dell’uomo come specie. Esse riguardano
essenzialmente il comportamento che manifesta aspetti e interessi che non sono più
di ordine biologico. La maggiore discontinuità nel comportamento dell’uomo
rispetto all’animale viene ritenuta da molti il linguaggio simbolico. Esso
viene ammesso quasi unanimemente in Homo sapiens di 100.000 anni fa. Tuttavia
vari studiosi propendono a riconoscere forme di linguaggio anche nell’umanità
precedente e perfino in Homo habilis. Le manifestazioni dell’arte e le pratiche
funerarie, ben documentate negli ultimi 100.000 anni, vengono riferite a un
simbolismo che è proprio dell’uomo e non dell’animale. In queste manifestazioni
si dimostra chiaramente una discontinuità rispetto al mondo animale. Esse non
appartengono propriamente alla sfera biologica. La cultura si caratterizza come
capacità di progetto e di simbolo, entrambi rivelatori di intelligenza
astrattiva, di coscienza e autodeterminazione. Queste proprietà non sono
riconducibili alla sfera biologica e possono essere ritenute di ordine
extrabiologico. Come già osservato, le manifestazioni che rivelano senso estetico
o religioso, sono facilmente riferibili alla cultura. Ma anche i prodotti della
tecnologia strumentale e della organizzazione del territorio, direttamente legati
a strategie di sussistenza, rivelano intelligenza astrattiva nel prefigurare lo
strumento che si vuole ottenere proiettandolo nel futuro e, quindi, capacità di
p ro g e t t o . L’uso di pietre o la pratica di rozze scheggiature sono da
ammettersi per ominidi non umani che avevano realizzato la liberazione della
mano, dalle funzioni di sostegno o di appoggio, ma lo strumento può
considerarsi umano quando rivela un’attitudine progettuale e assume un
significato. Negli australopiteci l’uso di pietre o eventuali rozze scheggiature
hanno un significato «anedottico», più che definire un comportamento, ha notato
Coppens (1991). Essi non realizzarono una vera cultura strumentale e forse è
per questo sono stati soccombenti nella competizione con l’ambiente. La
discontinuità culturale, documentata nelle fasi più antiche dai prodotti della
tecnica, si arricchisce nel tempo non solo di strumenti sempre più elaborati,
come i bifacciali e gli strumenti costruiti con la tecnica Levallois, ma anche
di documenti ricollegabili a simbolismo di ordine spirituale, svincolati da
necessità di ordine biologico, espressioni di una vita sociale più intensa e di
interessi extrabiologici, come quelli riferibili alla sfera dell’arte e della
religione. Nell’uomo l’adattamento all’ambiente si realizza sia mediante
meccanismi biologici (omeostasi genetica e fisiologica) che mediante
comportamenti culturali. Quest’ultima forma di adattamento assume nell’uomo un
significato e una importanza tutta particolare a motivo della capacità
progettuale e innovativa che caratterizza il comportamento umano. Nel caso dell’uomo
la differenza è rappresentata dal fatto che non è un comportamento stereotipo, dettato
dal Dna o dall’imprinting o da altri fattori non intenzionali, ma è un
comportamento pensato e trasmesso anche per via non parentale, che può anche
andare contro l’i n t e re s s e dell’individuo o della specie. L’uomo ha la
capacità di intervenire nei processi di adattamento modificando sia l’ambiente
per adattarlo a sé, sia il proprio comportamento per adattarsi all’ambiente. Di
conseguenza l’uomo ha la possibilità di modificare e anche contrastare
intenzionalmente la selezione naturale operata dall’ambiente. Ciò rappresenta
un caso unico nella natura. L’uomo avvertendo la sua interdipendenza con le
altre specie ha la possibilità di intervenire nella gestione dell’ambiente in
senso più generale favorendo o contrastando la presenza di altre specie. Di qui
le sue responsabilità in ordine all’ecosistema di cui fa parte. Sotto questo
profilo la centralità che la teoria darwiniana toglie all’uomo, considerandolo come
un evento fortuito, gli viene restituita dalla sua unicità nella responsabilità
che ha nella gestione dell’ambiente. La discontinuità culturale e la discontinuità
ecologica suggeriscono una discontinuità di altro ordine, di carattere
ontologico, sul piano dell’essere, che invece non viene ammessa in una
concezione riduzionista, secondo la quale lo psichismo riflesso e la coscienza
sono ricondotte all’attività neuronale e ai geni. A nostro modo di vedere le
differenze espresse dal comportamento culturale non sono della stessa natura di
quelle fisiche, cioè quantitative, ma qualitative, perché si collocano a un
livello diverso da quello biologico e implicano proprietà che non sono
riconducibili a quelle di ordine fisico, chimico o biologico. L’autocoscienza,
come capacità di riconoscere sé e gli altri, come consapevolezza di esistere è
propria dell’uomo. Nell’autocoscienza c’è la capacità di abbracciare il passato
e il futuro, oltre al presente, non in termini deterministici. L’uomo sa e sa
di conoscere, pensa e sa di pensare. Il pensiero non appartiene all’universo
fisico misurabile, anche se si può registrare l’attività elettrica dei neuroni
che entrano in azione quando la mente pensa, così come si possono registrare le
variazioni dell’attività cardiaca per delle emozioni o attività di ordine
spirituale, non riferibili a eventi di ordine fisico. Il pensiero e la
coscienza non si possono m i s u r a re . La libertà, che può riconoscersi
nella varietà dei comportamenti dell’uomo, esprime un’attività intrinsecamente
non determinata da proprietà biologiche. Il senso religioso e il senso morale
suppongono la capacità di valori e di scegliere liberamente e sono esclusivi
dell’uomo. Essi non sono riconducibili a proprietà biologiche o a comportamenti
stereotipi o a fattori esterni. Certamente c’è un rapporto o interfaccia tra
sfera biologica e sfera mentale, tra sentimenti e reazioni sul piano biologico neuronale,
tra comportamenti e stimolazioni esterne. Il divario ontologico non comporta
separazione, ma distinzione sul piano dell’essere, con interazione o interfaccia
tra sfera biologica e sfera mentale. Resta difficile rappresentarci il rapporto
tra sfera animale e sfera spirituale per ragioni intrinseche, essendo una delle
due sfere inesplorabile con i metodi empirici. Ma concettualmente ne cogliamo
la distinzione.
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