Ci vuole un cuore umano per curare le malattie - http://d.repubblica.it
Scrive Jaspers: "La figura del medico si caratterizza da un lato per la conoscenza scientifica e l'abilità tecnica, dall'altro per l'ethos umanitario"
Risponde Umberto Galimberti
Sono un oncologo medico che lavora in questo campo da 30 anni e sono molto in accordo con quanto scritto nell'articolo "Il cancro è sentimentale" dalla vostra giornalista Mara Accettura nel numero 811 di D. Ne condivido appieno il contenuto, ma c'è un "ma". Come hanno scritto grandi pensatori come Jaspers e Jung, la formazione del medico è sempre più concentrata sugli aspetti tecnici, sempre più sofisticati e specialistici, mentre pochissimo spazio è dedicato alla formazione "umanistica" del medico. Quando si parla di guidare i pazienti alla consapevolezza di sé, al gusto della vita, e così via, bisognerebbe che chi si propone di guidare i pazienti in questo percorso, abbia perlomeno intrapreso lo stesso percorso. Personalmente ho sentito la carenza in questo ambito della formazione accademica e da solo ho affrontato un percorso che mi ha portato a diventare io stesso uno psicoanalista, pur restando un oncologo, perché la personalità del medico non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che deve essere coltivato per tutta la vita. Troppo spesso nei nostri ospedali i pazienti sono numeri e raramente considerati persone bisognose di umana attenzione. Umana perché di un uomo verso un altro uomo. Uno che sa verso uno che non sa. Uno che è forte verso uno che è debole. Perciò si deve basare sull'empatia (so che cosa provi), ma anche sulla comunicazione (anche tu devi sapere) e sulla professionalità (io so che cosa fare). Ma medici così non nascono sugli alberi, vanno costruiti, formati. Claudio Verusio, Primario di Oncologia Medica AO Busto Arsizio, PO Saronno Psicologo Analista Membro dell'International association analityc psicology cverusio@aobusto.it Quanche settimana fa in questa rubrica abbiamo parlato della "personalità dei professori". Ora questa lettera ci offre l'occasione per parlare della "personalità dei medici", del tutto trascurata nella loro formazione universitaria e specialistica. E questo perché lo sguardo medico visualizza il corpo esclusivamente come "organismo", ossia come un apparato di organi e funzioni da trattare in modo meccanicistico come qualsiasi fenomeno naturale. In questo sguardo clinico oggettivante la soggettività del paziente, il suo vissuto, e spesso la sua angoscia sembra non siano di competenza medica. E finché dura questa impostazione cartesiana della medicina, non c'è nulla da obbiettare. Ma questa impostazione intercetta il paziente o solo la sua malattia? E se i più recenti studi hanno accertato che il modo con cui il paziente vive e percepisce la sua malattia influisce sul suo decorso e talvolta sul suo esito, si può ancora essere esclusivamente cartesiani e limitarsi a uno sguardo clinico oggettivante? Evidentemente no. E allora come si fa a integrare la conoscenza scientifica con la componente umanitaria?Conoscenza scientifica e abilità tecnica possono essere insegnate e apprese perché si riferiscono a qualcosa di oggettivo che non mette in gioco né la personalità del medico né quella del paziente, ma la componente umanitaria può essere insegnata e appresa? A mio parere no, a meno che un medico, come diceva Eraclito, non "indaghi profondamente se stesso" e, come vuole l'insegnamento di Jaspers, scopra se, oltre a spiegare (erklären) scientificamente la malattia, sa anche comprendere (verstehen) la sofferenza e l'angoscia del paziente. A giudicare dai test di ammissione agli studi di medicina, questa componente umanitaria non è presa in alcuna considerazione, e tantomeno nel seguito dei corsi universitari. Heidegger, nelle sue pagine dedicate alla cura (Sorge), distingue il pro-curare (Besrorgen) qualcosa a qualcuno dal prendersi cura (Fürsorge) di qualcuno. Ora, i medici che si limitano ad applicare protocolli, prescrivere farmaci e ricette ai pazienti senza prendersi cura della loro soggettività che, lo ripetiamo, tanta rilevanza ha nell'insorgenza, nel decorso e nella prognosi della malattia, sono da considerare davvero medici o semplici "tecnici di protocolli"? Jaspers ritiene che della psicoterapia si potrebbe fare a meno se i medici recuperassero la comunicazione coi pazienti facendosi carico non solo di quel dato oggettivo che è la malattia, ma anche di quel vissuto soggettivo che è la sofferenza del paziente. Anche se, come ci ricorda Kafka: "Scrivere una ricetta è facile, parlare con un paziente e molto, molto più difficile".
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