giovedì 6 dicembre 2012


Diagnosi sugli embrioni, il regno dell’incertezza di Emanuela Vinai - Il genetista Domenico Coviello  spiega la verità (taciuta) sugli esami cui si vuole sottoporre la vita concepita  in provetta  per selezionare gli individui senza difetti Una pratica che lascia molti dubbi scientifici e non solo etici – Avvenire, 6 dicembre 2012

Non esistono persone senza fattori di rischio genetico per un qualche aspetto della propria salute. In molti casi anche l’analisi del Dna potrà al massimo fornire un rischio di predisposizione, non una previsione certa»: lo assicura Domenico Coviello genetista, direttore del Laboratorio di Genetica umana dell’Ospedale Galliera di Genova, consigliere nazionale di Scienza & Vita. Mentre un adulto può sottoporsi a controlli periodici per prevenire e monitorare l’insorgenza di un patologia, un embrione è sottoposto al giudizio altrui, spesso letale. La crescente richiesta di test genetici che "garantiscano" la salute del nascituro, dimostra che le tecniche di diagnosi genetica preimpianto sono finalizzate all’individuazione e all’eliminazione dei non perfetti. Ma quante alterazioni si possono cercare su un singolo embrione, e cosa è possibile diagnosticare? «Il materiale a disposizione è relativamente poco, parliamo di 1-2 cellule – spiega Coviello – per cui il numero di esami che si possono effettuare sul singolo embrione resta comunque limitato». Quindi la diagnosi deve essere mirata: «Quando si parla di malattie diagnosticabili è necessario distinguere tra malattie genetiche classiche, in cui è coinvolto un solo gene responsabile, e complesse, che coinvolgono mutazioni di più geni. Nelle prime si pone un solo e specifico quesito in ordine a una singola patologia, come nella talassemia, nella fibrosi cistica o nel ritardo mentale legato al cromosoma X». Per le malattie complesse le risposte della scienza sono più volatili. «In questi casi non è possibile ottenere certezze: ogni gene coinvolto fornisce solo l’indicazione di un rischio aumentato – conferma il genetista –, si può parlare solo di percentuale di rischio aumentato di sviluppare la patologia, non di certezza di esserne affetti».  
Date queste premesse, i risultati delle diagnosi sono attendibili? Coviello è molto cauto: «Nelle metodiche di diagnostica preimpianto esiste una percentuale rilevante di errori, dal 2 al 5% dei casi, per la maggior parte conseguente alla difficoltà dei processi o a errori di laboratorio. I tempi sono molto ristretti e le tecniche di manipolazione ed estrazione delle cellule sono svolte da un’équipe specifica, diversa rispetto a quella che esegue la diagnosi vera e propria. In particolare, l’amplificazione e il sequenziamento del Dna su una o due cellule sono procedure complesse che richiedono competenze specifiche ed esperienza consolidata». Da ciò si determina anche il problema dei falsi positivi, in cui si diagnostica una patologia dove non c’è, o, viceversa i falsi negativi, dove si individua come sano un embrione che poi risulta portatore di una malattia genetica. Spiega ancora l’esperto: «Alle coppie che si sottopongono alla diagnosi preimpianto viene comunque consigliato di fare un controllo successivo tramite la diagnosi prenatale classica, per verificare la diagnosi genetica».  
Intervenire sulle sue poche cellule non rischia di danneggiare l’embrione? «La diagnosi genetica è un momento delicatissimo, dove avviene la maggior parte dei fallimenti della procedura, pari al 10-15% – chiarisce Coviello –. Nel momento in cui vengono estratte le cellule da esaminare non è però ancora avvenuta la differenziazione delle singole cellule, quindi non viene compromessa una singola parte del corpo dell’embrione. Il rischio di danneggiamento è invece per lo sviluppo generale dell’embrione, ed è insito nella procedura stessa di fecondazione artificiale che di per sé ha una percentuale di riuscita molto bassa». Trattando di diagnosi genetica preimpianto e di mutazioni genetiche ci si dovrebbe chiedere: com’è possibile utilizzare queste informazioni per aiutare i pazienti, cioè gli embrioni? «Purtroppo – conclude Coviello – l’intento non è di curare questi piccoli pazienti, ma è di selezionare un figlio "perfetto" che, nella realtà, nessuna scienza può garantire».  

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