11-12-2012
Da qualche giorno è al vaglio dei Consiglio dei Ministri una bozza di decreto legge che prevede una modifica lieve, ma significativa perché più efficace, al congedo parentale per mamma e papà lavoratori. Ad oggi entrambi, nei primi otto anni di vita del bambino, possono stare a casa per un certo numero di mesi e possono frazionare questo lasso di tempo in mesi, settimane e giorni. Se la bozza diventerà decreto la frazione riguarderà anche la mezza giornata lavorativa. Questo in ottemperanza ad una direttiva UE che disciplina la materia.
La direzione pare che sia quella giusta perché laddove c’è uno sforzo dell’ordinamento giuridico di venire incontro alle esigenze educative dei genitori non si può che accogliere tale sforzo con gratitudine. Questo a patto di non cadere nel cliché – che è ormai è anche habitus mentale – che vede famiglia e lavoro nemici per la pelle. In questa prospettiva si sente sempre più parlare del nobile tentativo di ogni genitore coscienzioso di conciliare lavoro e famiglia sul piano del tempo. Intesa così la questione è fuorviante ed erronea: lavoro e famiglia non devono trovare una conciliazione, ma semmai un’integrazione. Il distinguo non è solo linguistico ma prima di tutto di sostanza.
Se il fine da ricercare per trovare il punto di equilibrio tra impegni familiari e quelli lavorativi è la conciliazione tra questi due mondi, ciò starebbe a significare che queste due realtà di per se stesse sono tra loro confliggenti. Ma sia il lavoro sia la famiglia sono realtà naturali, di diritto naturale e quindi aspetti entrambi positivi dell’uomo. Ogni realtà pienamente umana non può entrare in conflitto con un’altra realtà pienamente umana: l’uomo per natura non è in sé contraddittorio. Quindi questi due aspetti del vivere esprimono una ricchezza per l’uomo ed uno non può per sua natura escludere l’altro. Lavoro e famiglia non entrano in conflitto e non dovrebbero entrare in conflitto perché profili differenti di unico volto umano, cioè realtà sociali di per sé diverse la cui unione realizza la piena vocazione della persona.
Chiarito questo, allora è più corretto parlare di armonizzare famiglia e lavoro, cioè trovare il giusto posto ad ogni cosa. E il giusto posto della famiglia si situa al di sopra di quello del lavoro. Da qui consegue che il lavoro è sì un fine esistenziale dell’uomo, ma fine rivolto a sua volta al proprio perfezionamento, al benessere della famiglia e di quello sociale, e in ultima istanza a Dio. Questa è la vera integrazione tra lavoro e famiglia. In questo senso occorre riferirsi al lavoro non come fine strumentale, ma fine infravalente: buono per sé – non è un mero mezzo – ma fine che riceve pieno senso solo dalle mete ultime che gli stanno gerarchicamente sopra, solo se il lavoro è ordinato alla persona e alla famiglia.Detto in altri termini: è il valore della famiglia insieme a quello del bene comune che illuminano il lavoro e non viceversa. È la famiglia il primo lavoro dell’uomo.
L’obiezione è dietro l’angolo: belle parole, ma è solo teoria. Teoria forse buona per gli angeli, non per i poveri mortali che si svegliano ogni mattina alle 6, rincasano alle 20 ed esausti hanno a malapena il tempo nei giorni non lavorativi di fare la spesa e sbrigare altre incombenze domestiche. E dove lo trovi il tempo per stare non con il fiato corto con moglie e figli? La difficoltà di integrare famiglia e lavoro è data dal fatto che l’aria culturale che respiriamo – fatta non solo di leggi ma di orientamenti culturali provenienti dai life styler, dalle mode, dalle abitudini sociali - ci ha indotto a stringere un’inimicizia quasi insanabile tra famiglia e lavoro, ci ha persuaso della bontà di allearci con il lavoro per lasciare le briciole di noi stessi al focolare domestico. Il primo ha fagocitato le relazioni familiari perché la professione – nell’immaginario collettivo – è la realizzazione di sé, la famiglia è ciò che toglie tempo e risorse al “sé”.
Ciò perché abbiamo dimenticato o non crediamo più che solo attraverso la realizzazione del coniuge e dei figli la persona realizza se stessa. Quindi la mezza giornata che grazie all’eventuale decreto legge toglieremo al lavoro e spenderemo in famiglia sarà buon tempo se investito nell’altro, sarà cattivo tempo se verrà vissuto come tregua momentanea al conflitto lavoro-famiglia oppure come tempo di libera uscita dal carcere del lavoro. Quasi che dopo aver timbrato il cartellino in ufficio ecco che ci troviamo costretti a timbrarlo sulla porta di casa.
Ma anche se sposiamo appieno tutte queste argomentazioni e siamo animati dalle migliori intenzioni ci troviamo imprigionati in una gabbia sociale anti-familiare che di necessità stritola questi nostri pii desideri. Che dire infatti delle donne che vengono poste di fronte all’aut aut tra maternità e impiego? Che dire della pressione fiscale che obbliga a lavorare sempre più a lungo e intensamente, inventandosi secondi e terzi lavori? Che dire infine dell’indifferenza dello Stato per le famiglie numerose? Ma è il destino del cristiano quello di essere perseguitato dal mondo: oggi forse, almeno in Occidente, in modo meno cruento rispetto al passato, ma sicuramente più lacerante. Viviamo nel mondo ma non siamo del mondo e ce lo dobbiamo ricordare non per rassegnarci ma per capire che l’impegno che ci viene richiesto a volte è quasi eroico.
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