06-12-2012
Sotto la spinta dell’invecchiamento della popolazione “la sanità pubblica è chiamata a ripensarsi” con “innovazioni e adattamenti”; e poi la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale “in futuro potrà non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni”. Così, per ben due volte nell’ultima settimana il presidente del Consiglio Mario Monti è intervenuto sulla questione del rapporto tra servizio sanitario e andamento demografico. Monti ha sollevato il problema ma sulla strada da seguire è stato molto sul generico, per cui è stato interpretato in diversi modi: vuole privatizzare la sanità, hanno detto alcuni ribellandosi preventivamente; sta cercando qualche modo creativo per imporre nuove tasse, hanno pensato altri basandosi sul curriculum di questo governo, e anche questo non fa certo piacere.
Di sicuro sarebbe interessante sapere a cosa pensa veramente il presidente del Consiglio quando parla di “nuove modalità”, perché sicuramente un’idea in testa ce l’ha se insiste così sul tema. Di sicuro evoca un nodo ineludibile, ovvero le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione dovuto sia a una maggiore e crescente longevità (e questo è un dato positivo) sia a tassi di fertilità che si mantengono molto bassi da più di 40 anni (e questo è un dato molto negativo). Se è vero – dati Eurostat - che la percentuale di ultra-65enni in Italia passerà dall’attuale 20% al 33,9% nel 2050 e che gli ultraottantenni nello stesso periodo addirittura triplicheranno, dal 4,8 al 13,3%, è ovvio che conseguenze ce ne saranno e pesanti.
Ma diversi economisti mettono pure in guardia dall’enfatizzare troppo il fattore dell’invecchiamento nell’aumento della spesa sanitaria. In fondo dal dopoguerra a oggi la spesa sanitaria in tutti i paesi europei è aumentata di molto e non certo per l’invecchiamento della popolazione. In Italia, ad esempio, tra il 1960 e il 1990 la spesa sanitaria pubblica in rapporto al Prodotto Interno Lordo è praticamente raddoppiata, passando dal 3% a poco meno del 6%. Oggi siamo arrivati al 7,1%, ma secondo alcune previsioni nel 2050 potrebbe arrivare al 9%, con una spesa effettiva che aumenterebbe del 150% rispetto a oggi: dai 112,7 miliardi di euro attuali ai 261.
Cosa ha fatto aumentare così tanto la spesa sanitaria fino ad oggi? Secondo uno studio pubblicato nel 2009 su “Studi e Note di Economia”, curato da Stefania Gabriele e Michele Raitano, i fattori principali sono tre: l’evoluzione delle tecniche mediche, l’estensione della copertura assicurativa e il miglioramento del tenore di vita e nel cambiamento dell’attitudine dei cittadini verso le cure mediche. E anche per il futuro, avvertono gli stessi studiosi, l’aumento della spesa sanitaria sarà causato da diversi fattori, per cui non deve essere sovrastimato l’impatto dell’invecchiamento della popolazione, anche se una maggiore spesa è inevitabile soprattutto per le malattie croniche e invalidanti.
Ad ogni modo, oltre che sull’aumento dei costi, l’invecchiamento della popolazione inciderà forse ancora di più sulle possibilità di finanziamento del sistema. Assottigliandosi la popolazione in età produttiva (in Italia era il 61,7% del totale nel 2000, sarà il 46,2% nel 2050) non si potrà più usare la leva fiscale per fare fronte alle necessità di bilancio. Per cui le soluzioni più gettonate al momento sono – oltre alla riduzione dei costi – la revisione del sistema dei ticket, con drastica riduzione delle esenzioni, e il ricorso ad assicurazioni e mutue private.
Il rischio più grosso sembra però quello di non affrontare la questione demografica come il vero problema (con tutte le ricadute che ha nei diversi settori), e farla invece rientrare di volta in volta nell’affronto dei problemi settoriali. Per capirci: se analizziamo i costi della sanità, scoprendo che l’andamento demografico rappresenta una criticità, si può facilmente arrivare a soluzioni aberranti, come suggerisce un certo dibattito in corso negli Stati Uniti.Pochi mesi fa un commento sul New York Times, che riprendeva altri interventi del genere, imputava all’egoismo di voler vivere la responsabilità dell’aumento sproporzionato della spesa pubblica. Il calcolo è molto semplice: nel 2005 soltanto i malati di Alzheimer sono costati agli Stati Uniti 91 miliardi di dollari, cifra che già nel 2015 sarà più che raddoppiata (189 miliardi), per poi raggiungere 1 milione di miliardi annui nel 2050. La conclusione è evidente, per quanto agghiacciante: “E’ difficile pensare di ridurre la spesa sanitaria se le persone e le loro famiglie non cominciano ad affrontare la morte e i loro doveri verso i viventi”.
Da un punto di vista contabile, il ragionamento non fa una grinza: sarà un caso, ma proprio adesso decolla in tanti paesi occidentali una campagna pro-eutanasia. E’ il trionfo dell’utilitarismo, che cancella la possibilità che la vita abbia un senso, che non viene meno con la malattia, l’inabilità, la vecchiaia.
C’è però anche un modo diverso di affrontare la questione, che guarda alla società nel suo insieme e alla accresciuta longevità come a una opportunità. E’ ancora uno studioso americano che la propone, l’economista Nicholas Eberstadt, che in uno studio pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni già nel 2007, mette in risalto il potenziale rappresentato dalla popolazione anziana. Dice Eberstadt che il vantaggio dell’Europa è avere una popolazione non solo longeva ma anche sana nella sua anzianità, ovvero mediamente in buona salute. Ed è questo l’unico fattore su cui i governi europei possono contare per mantenere un certo livello di prosperità: le nascite infatti sono molto al di sotto del livello di sostituzione e continueranno ad esserlo per molto tempo, e anche se la tendenza si invertisse da un giorno all’altro ci vorrebbero comunque alcuni decenni prima di apprezzarne i benefici. Né l’immigrazione, per quanto sostenuta, può essere una soluzione.
Ecco allora la necessità di valorizzare gli “anziani” in buona condizione di salute, anche perché il vero paradosso che ancora vive l’Europa è che mentre cresceva l’aspettativa di vita diminuiva l’età in cui si andava in pensione. L’idea di Eberstadt non è quella di fare lavorare nonni e bisnonni, ma sicuramente quella di sfruttare una maggiore produttività di 50enni e 60enni, tenendo anche conto che le condizioni di lavoro – in società sempre più orientate ai servizi – si sono fatte fisicamente meno dure.
Ma certamente per favorire questo è necessaria anche una riforma radicale del lavoro, che garantisca la massima flessibilità nei contratti lavorativi e la possibilità di un costante aggiornamento. Insomma, incentivando la permanenza al lavoro dei sessantenni “sarebbe possibile aumentare il potere d’acquisto medio complessivo, rendendo la società più ricca e aumentandone le possibilità di risparmio e d’investimento, a tutto favore della crescita sul breve periodo”. In questo modo sarebbe anche più facile avere una base fiscale su cui contare per finanziare la spesa sanitaria. E a chi pensa che la prospettiva di lavorare fino a età avanzata non sia allettante, si può sempre ricordare l’alternativa sopra citata, che gode oggi nella nostra società di sostenitori eccellenti.
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