Avvenire.it, 1 dicembre 2010 - La vita, la morte e ciò che una società deve garantire davvero - Responsabilità e cura per i malati cronici di Carla Collicelli
Lo spazio dato da un programma televisivo molto seguito a testimonianze, legate a recenti episodi di "eutanasia", ha riacceso un’attenzione per il tema che per qualche tempo era stata sopita, e ha sollevato reazioni critiche più che giustificate. La discussione, anche su questo giornale, ha toccato soprattutto la questione della dignità di chi soffre e di chi assiste e quella della comunicazione e della sua obiettività. Vi sono almeno altri due importanti aspetti che non vanno tralasciati, e che riguardano il contesto sociale più generale nel quale l’aspetto comunicativo si inquadra: quello delle regole sulla vita e la morte in una società moderna e quello della priorità dei servizi e delle cure.
I principi generali non mancano in Italia. In particolare la Costituzione parla chiaro: agli articoli 2 e 3 si riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo e si impone di rimuovere gli ostacoli alla libertà e uguaglianza dei cittadini; e all’articolo 32 si sanciscono la tutela della salute e le cure gratuite per gli indigenti, e si dichiara che nessuno può essere obbligato contro la sua volontà a un determinato trattamento sanitario. Anche le posizioni della Chiesa sono chiaramente espresse in vari documenti, e riguardano l’esclusione dell’eutanasia, il dovere di curare e di alleviare le sofferenze e la cautela rispetto al cosiddetto accanimento terapeutico.
L’insieme dei principi, laici e religiosi, citati sembra ampiamente condiviso, ma i problemi nascono nel momento in cui si pretende di andare oltre, orientando le scelte, o giudicandole, e pretendendo di dettare regole univoche per i tanti e differenti casi concreti che ci si trova ad affrontare. Così facendo si alimenta il conflitto, frutto dell’incertezza diffusa nelle società moderne, tra un approccio umanizzato alla malattia, di accompagnamento amorevole, di cura anche laddove non è possibile guarire, di accettazione della menomazione, e un approccio prestazionale ed efficientistico, di sottovalutazione del disabile e di fiducia quasi magica nelle potenzialità della scienza e della tecnologia.
In realtà dai principi dovrebbe discendere un vissuto, fatto di situazioni concrete e di concrete decisioni, nel quale si possa agire nel rispetto delle norme, da interpretare alla luce dell’etica attraverso la relazione interpersonale (ethos, nomos e logos secondo Aristotele). In altre parole tutto il contrario di una imposizione di ricette preconfezionate: la salvaguardia della vita, la cura della sofferenza, e anche il buon uso delle possibilità della scienza moderna e la attenzione critica nei confronti dei rischi del cosiddetto accanimento terapeutico dovrebbero venire tutelati attraverso un atteggiamento responsabile di sano e corretto dialogo tra medico e malato e tra medico e famiglia, per la valutazione delle scelte da compiere, per la interpretazione empatica della volontà del malato, e anche per la garanzia della reversibilità delle scelte eventualmente formulate. Ma chi si occupa di fare in modo che a tutti sia concesso un simile sano e corretto dialogo?
Il secondo aspetto richiamato è quello delle responsabilità di chi deve garantire la tutela della salute e le cure gratuite per gli indigenti. Il dramma maggiore, per chi venga colpito da una malattia invalidante e incurabile e per la sua famiglia, quello che spesso provoca sconforto e perdita di speranza, ha a che vedere quasi sempre con la carenza di supporti, sia nella fase iniziale di sgomento e impreparazione, nella quale occorrerebbero un solido e competente aiuto per la comprensione e l’individuazione delle soluzioni terapeutiche e un adeguato sostegno sociale e psicologico, sia nelle fasi successive, nelle quali si presentano altre necessità, dalla assistenza socio-sanitaria integrata alle cure palliative.
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