giovedì 23 dicembre 2010

Test genetici in gravidanza, caccia al feto difettoso - Arrivano nuovi test per individuare con crescente precisione eventuali anomalie nel feto. L’effetto è una quasi inarrestabile «caccia al difetto». Col risultato di proporre come unica 'cura' della malattia l’interruzione della gravidanza di Emanuela Vinai - Avvenire, 23 dicembre 2010

La domanda si pone con insistenza: ma lo vogliamo far nascere, questo bambino? Quesito tutt’altro che ozioso. Non solo per l’inevitabile assonanza natalizia, ma perché già nella normalità delle cose il venire al mondo è un percorso a ostacoli, e se poi a questo si aggiunge l’attraversamento della giungla dei test prenatali, per il nascituro la faccenda di­venta oltremodo ostica. Secondo i dati disponibili, in Italia una donna in gravidanza su tre si sottopone a test di diagnosi prenatale. Le motivazioni sono diverse e vanno dal raggiungimento di una determinata soglia anagrafica (normalmente i 35 anni), alla presenza di malattie geneticamente trasmissibili, a una più generica e ormai diffusissima 'medicalizzazione della gravidanza'.
Un trend che finisce per stigmatizzare la futura mamma che non si sottoponga a tutti gli esami disponibili per 'la salute del bambino' e che, pur nelle migliori intenzioni, finisce per scivolare in un’inarrestabile 'caccia all’anomalia'. «Il problema dello screening prenatale è la fina­lità con cui lo si effettua», afferma Licinio Contu, genetista, presidente della Federazione italiana Adoces (Associazione italiana donatori cellule staminali) e dell’Admo (Associazione donatori mi­dollo osseo): «Il test ha senso se si esegue, come si farebbe con un adulto, con la prospettiva di fornire tempestivamente una diagnosi di un’eventuale anomalia così da predisporre una terapia adeguata. Se invece l’unica 'cura' prospetta­ta è l’aborto non possiamo che parlare di eugenetica, perché avviene inevitabilmente una selezione ».
Contu è particolarmente duro con la 'celo­centesi', l’ultimo ritrovato in fatto di test pre­natali, che, senza ricorrere alla villocentesi, consente di diagnosticare la talassemia già al se­condo mese di gestazione. Anticipare i risultati consente, come dichiarato nel recente comunica­to stampa di presentazione del test, di «ricorrere all’Ivg e non all’aborto terapeutico con un bene­ficio della donna sia fisico sia emotivo». «Nel ca­so della talassemia è assurdo – ribatte il genetista – perché se i bambini talassemici sono avviati al trapianto in tempo utile le percentuali di guari­gione che abbiamo riscontrato sono del 98%». L’uso indiscriminato dei test prenatali e la re­sponsabilità in capo ai sanitari di interpretare cor­rettamente i risultati porta, più o meno inconsa­pevolmente, all’introduzione surrettizia di un con­cetto che va contro ogni logica medica: l’aborto diventa prevenzione di una malattia. «La cura che si propone è l’eliminazione del malato – conclu­de Contu – ma cosa succederebbe se questa so­luzione venisse applicata anche nelle corsie degli ospedali?».

Per ovviare all’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita, il 16 dicembre il Ministero della Salute ha pubblicato le «Linee guida sulla gravidanza fisiologica». Attraverso un sistema di quesiti e raccomandazioni, il documento diviene strumento per «la predisposizione di protocolli operativi dei differenti punti na­scita, oltre che strumento di rife­rimento per la presa in carico e la continuità assistenziale della donna in gravidanza». Il vade­mecum analizza tutto il pianeta maternità: dagli stili di vita all’informazione, dal timing delle visite indispensabili per un cor­retto monitoraggio agli esami cli­nici adeguati per la salute della mamma. Una sezione delle linee guida è espressamente dedicata allo «screening per anomalie strut­turali fetali» e la «diagnosi prena­tale della Sindrome di Down».

L’intento di ridurre l’estensione acritica degli esami pre­natali si traduce però nell’ampliamento della platea dei destinatari, come evidenzia Lucio Romano, ginecologo e presiden­te dell’Associazione Scienza & Vita: «L’articolazione delle linee guida dà una risposta compiuta e ag­giornata sulle varie tematiche i­nerenti la gravidanza fisiologica. Una particolare attenzione viene rivolta all’informazione della ge­stante, alle indagini di laboratorio e strumentali cui poter accedere e si evidenzia uno speciale im­pegno nella individuazione tempestiva di feti af­fetti dalla Sindrome di Down attraverso un ca­pillare percorso finalizzato alla diagnosi prenatale della sindrome, da offrire a tutte le donne entro la 13ma settimana più 6 giorni di gravidanza». Ciò significa «un’estensione massiva dell’esame a tut­te le gestanti e non più solo per i soggetti a ri­schio, come le donne in età fertile avanzata».

I rischi? «Il dato che preoccupa – continua Ro­mano – è il sottile propagarsi di una cultura eu­genetica selettiva derivante dalla sovradiffusio­ne di screening prenatali. Infatti, come riportato nelle Linee guida, in Danimarca attraverso l’in­troduzione della valutazione del rischio utiliz­zando il 'test combinato', si è dimezzato il numero di nati con sindrome di Down. In al­tri termini, si è raddoppiato il ricorso all’aborto». La possibile soluzione è già delineata nel va­demecum ministeriale, ma va correttamente applicata: «Laddove viene garantita la possi­bilità di accedere rapidamente a una consu­lenza con professionisti esperti e con capacità comunicative – conclude Romano – l’auspicio è che non ci si limiti a una mera informazio­ne sulle procedure ma si valuti con la gestan­te il rilievo di una vita umana».

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