SI POSSONO RIFIUTARE LE CURE? di Carlo Casini*
ROMA, domenica, 19 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Molte pressioni per incrinare il principio di indisponibilità della vita umana ed introdurre quindi una forma di eutanasia c.d. “passiva” o “omissiva” consistente nella rinuncia (per non attivazione o per interruzione) a cure “salva-vita” sono condotte facendo leva sul comma 2 dell’art. 32 della Costituzione, dove è stabilito che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Minacciando un possibile intervento della Corte Costituzionale, alcuni sostengono che le DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) dovrebbero poter comprendere anche il rifiuto totale di ogni cura e quindi anche di quelle “salva-vita”. Questa scelta indiretta della morte (varco all'eutanasia passiva) sarebbe costituzionalmente obbligatoria. Come la persona pienamente capace di intendere e di volere (“competente”, secondo il linguaggio internazionale) potrebbe lasciarsi morire esercitando il “diritto costituzionale” di rifiutare le cure, così, in base al principio di eguaglianza, un identico diritto dovrebbe essere attribuito all’incapace di intendere e di volere (“incompetente”) e dovrebbe essere esercitabile mediante le DAT, il cui effetto giuridico – di conseguenza – dovrebbe essere vincolante per il medico (1).
Ma questa tesi ha tre punti deboli. Il primo riguarda proprio il tema della eguaglianza. Non c’è affatto eguaglianza in ordine alla manifestazione di volontà tra la persona pienamente capace di intendere e di volere, magari totalmente sana, e il malato “incompetente”. Il primo può cambiare la sua decisione riguardo alle cure, il secondo non può farlo.
Soprattutto, si deve considerare che il rapporto del paziente con il medico non è paragonabile ad una relazione contrattuale di tipo commerciale. Giustamente si parla oggi di “alleanza terapeutica”. La terapia ha lo scopo della guarigione o comunque della lotta contro la malattia e la morte. Questa “alleanza” suppone un’autentica relazione tra il paziente ed il suo medico curante: un dialogo nel corso del quale vengono esaminate le opportunità, le difficoltà, i rischi, i costi, gli effetti, le implicazioni, le condizioni, le alternative delle varie possibili soluzioni.
In questo, sebbene la parola ultima spetti al malato, l’operatore sanitario si trova di fatto su un piano diverso e per così dire superiore. La sua competenza professionale gli attribuisce una particolare autorevolezza, gli consente di dare alle sue parole la forma del consiglio, il quale può essere più o meno pressante, più o meno ripetuto, più o meno persuasivo. Questo tipo di dialogo con cui viene attuata l’“alleanza terapeutica” non è possibile quando il malato ha perso la coscienza (è “incompetente”). Non è una differenza da poco, tanto più che il dialogo deve essere orientato alla cura, non al rifiuto della cura. Ciò vale anche per l’ambiente che sta attorno al paziente, quello familiare e amicale in primo luogo. Quando un malato rifiuta di curarsi è del tutto legittima, e forse doverosa, l’attività da parte di chi gli sta intorno, a cominciare dal medico, di persuasione affinché egli cambi decisione. I mezzi di informazione hanno seguito con commozione il caso della donna, affetta da cancrena ad una gamba che ha rifiutato di farsi amputare l’arto e così è morta. Tutti si sono mossi per convincerla ad affrontare l’intervento chirurgico, anche le pubbliche autorità, con messaggi ed appelli di ogni genere (2).
Si tratta di comportamenti che tutti consideriamo lodevoli. Proviamo ad immaginare una situazione a parti invertite: che la donna volesse l’operazione e che i medici, familiari, vicini, autorità l’avessero convinta a non effettuarla. Non solo vi sarebbe il biasimo invece della lode, ma forse si potrebbe configurare qualche grave ipotesi criminosa. Se ne deduce, ancora una volta, che l’“alleanza terapeutica” deve essere orientata ad ottenere dal paziente un consenso libero e informato alla cura, non al rifiuto di essa, per quanto da rispettare.
Ma questo tipo di dialogo, da cui può dipendere addirittura la salvezza della vita, non è possibile con il malato “incompetente”. Perciò, attribuire agli orientamenti manifestati “prima” dalla persona pienamente “competente” un valore giuridicamente vincolante per il “dopo” in cui vi è una incapacità di intendere e di volere non significa affatto garantire l’eguaglianza, ma, al contrario, cristallizzare definitivamente la diseguaglianza. Non sappiamo, infatti, cosa avverrebbe se il colloquio in cui si realizza l’“alleanza terapeutica” potesse avvenire nel tempo in cui egli è divenuto “incompetente”.
Il secondo punto debole della tesi che invoca l’art. 32 Cost. per introdurre l’eutanasia passiva (o omissiva) consiste nel fatto che il potere di rifiutare le cure, proprio ai sensi dell’art. 32 Cost., non può essere considerato come un diritto da porsi sotto lo stesso piano del diritto alla salute, come se il diritto alla cura comprendesse di necessità il diritto alla non cura. Il secondo comma dell’art. 32 Cost. stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Il senso di tale norma è reso chiaro dalle seguenti considerazioni:
a. Un trattamento non è “sanitario” per il fatto che è eseguito da un medico. Questi può ricorrere alla sua arte professionale per provocare una ferita o una riduzione della funzionalità di un organo per fini diversi dalla preservazione o dal recupero della salute, ad esempio al fine di ottenere al proprio cliente, in modo truffaldino, un risarcimento del danno o una dispensa dal proprio servizio. Un trattamento è sanitario se è finalizzato alla guarigione, al mantenimento della salute, ultimamente a conservare la vita. La morte è il contrario della salute. La cura, in quanto diretta a salvaguardare la salute, non può avere lo scopo di causare o affrettare la morte. Conseguentemente non può essere qualificata come “terapeutica” la scelta che favorisce la morte. Il fatto che la morte possa essere provocata da un medico, non trasforma il comportamento in un atto terapeutico. Abbiamo già osservato che l’alleanza medico-paziente è “terapeutica” se è rivolta alla salute, non alla attuazione dell’eventuale volontà di morte del paziente. In conclusione, la prospettiva della garanzia per un ipotizzato diritto alla non cura finalizzato alla cessazione della vita è estranea alla stessa lettera dell’art. 32 comma 2 della Costituzione.
b. Viceversa, l’art. 32 Cost. offre una garanzia costituzionale al diritto alla salute e si tratta di una garanzia finalizzata ad un interesse, non solo privato, ma anche pubblico. Lo dichiara espressamente la prima parte dell’articolo, che considera il “fondamentale” diritto alla salute, quale “un bene dell’individuo e interesse della collettività”. È una garanzia che non deve essere soltanto declamata, ma attuata in una logica di solidarietà. Tant’è vero che l’art. 32 Cost. assicura le cure anche agli indigenti, collocandone l’onere a carico delle strutture pubbliche.
c. Nello stesso comma secondo dell’art. 32 Cost., proprio in ragione dell’interesse pubblico riguardo alla salute, è ammessa la possibilità di cure obbligatorie per legge. Se l’autodeterminazione fosse il bene protetto da collocarsi al di sopra del diritto alla salute o, quanto meno, sullo stesso piano, non dovrebbe essere consentita l’imposizione di un obbligo di sottoporsi a una determinata terapia.
Il senso della disposizione è ulteriormente chiarito se proviamo ad ipotizzare una norma costituzionale opposta, del seguente tenore: “la legge può proibire il ricorso alle cure mediche”. Si tratterebbe di una disposizione assurda. Questo dimostra che la cura e il rifiuto della cura non stanno sullo stesso piano.
d. Si può forse parlare di un “diritto a rifiutare la cura”, dato che il secondo comma dell’art. 32 Cost. attribuisce alla volontà individuale il potere di decidere il rifiuto, ma il rapporto tra il diritto alla salute e il diritto al rifiuto delle cure va approfondito. In sintesi si può dire che il diritto alla salute è “fondamentale”, mentre quello di rifiutare le cure è “strumentale”, è finalizzato, cioè, proprio a rendere meglio realizzabile il primo e ad impedire uno straripamento del potere medico che potrebbe addirittura ritorcersi contro lo stesso diritto alla salute del soggetto interessato. È noto che senza la collaborazione del malato le cure sono meno efficaci. Dunque, per potersi dispiegare nel migliore dei modi esse hanno bisogno dell’assenso del paziente fin dal momento in cui vengono decise. Quasi sempre per effettuare una terapia rifiutata bisognerebbe ricorrere alla violenza fisica. Si pensi al caso del malato che non vuole recarsi in ospedale o che non vuole sottoporsi ad un intervento chirurgico. Ma l’uso della violenza non è conforme a quella dignità umana che deve essere rispettata anche nell’esercizio dell’attività curativa, come del resto stabilisce l’ultimo comma dell’art. 32 Cost.: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana”. È questo il fondamento del secondo comma. Soccorrono anche l’art. 5 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, secondo la quale “nessuno può essere sottoposto a trattamenti disumani o degradanti” e l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti e della libertà fondamentali che ripete il divieto di trattamenti disumani e degradanti. Questa interpretazione è confortata dall’origine storica del comma 2 dell’art. 32 Cost. La lettura dei lavori preparatori (3) mostra l’esattezza di quanto sostenuto da G. Iadecola secondo cui “la formulazione fu sollecitata essenzialmente dall’esperienza storica, allora recentissima, dei campi di sterminio e delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione che vi erano attuate (…). La norma fu approvata proprio con l’intendimento specifico di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non siano volontariamente accettati dal paziente e, più in generale, di proteggere la salute del singolo da illecite interferenze da parte dei pubblici poteri” (4).
Oggi, di fronte alle nuove straordinarie scoperte mediche ed alla tentazione di ricorrere ad una non collaudata sperimentazione per incrementarle, si può ritenere che il secondo comma dell’art. 32 Cost. sia una garanzia contro l’accanimento terapeutico, del resto già vietato implicitamente dall’ultimo comma perché contrario alla dignità umana.
e. Conclusivamente si può dire che il consenso del paziente all’intervento sanitario non è il suo fondamento, ma la sua condizione, come del resto la giurisprudenza ha sempre detto. Il fondamento dell’attività medica è il fine della tutela del bene-salute costituzionalmente garantito5. Si può anche sostenere che il desiderio di essere curato è presumibile in ogni uomo. Nel silenzio prevale il diritto alla cura, non il diritto a rifiutarla.
Il terzo punto debole della tesi che appoggia sull’art. 32 Cost., la costruzione di uno spazio per ammettere un diritto alla eutanasia “passiva” (o omissiva) intesa come rifiuto di cura proporzionata, è indicato proprio dalla lettera dello stesso art. 32 Cost. Il secondo comma, infatti, pone un limite alla facoltà di rifiuto: la legge può imporre la cura (“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”). Orbene il principio di indisponibilità della vita è, stabilito proprio dalla legge: non solo dagli artt. 579 e 580 del Codice penale e dall’art. art. 5 del Codice civile, ma anche da altre disposizioni normative. Esso è, infatti, ricavabile anche da un complesso di altre norme in materia di trapianto d’organi (5), di circolazione stradale (6), di prevenzione degli infortuni sul lavoro (7), di sperimentazione medica (8). Di più: la stessa proposta che stiamo commentando, una volta definitivamente approvata, diverrebbe “legge”, per cui i limiti da essa imposti alla facoltà di rifiuto non sarebbero censurabili proprio in base al secondo comma dell’art. 32 Cost.
Note
1 Cfr. in particolare: RODOTÀ S. Il paradosso dell’eguaglianza di fronte alla morte in SEMPLICI S (a cura di). Il diritto di morire bene. Bologna: Il Mulino; 2002; ID. George Orwell a Palazzo Madama. La Repubblica del 27 marzo 2009, pagg. 1 e 38.
2 L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, le inviò una lettera pubblica con l’invito a ripensarci: “mi rivolgo a lei come amico per invitarla a ripensare la scelta drammatica di affrontare la fine della sua vita senza consentire alla medicina l’intervento, pur doloroso, che potrebbe salvarla” (Il Corriere della Sera, 2 febbraio 2004) e l’allora assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano, Tiziana Maiolo, affermò: “la signora crede nella reincarnazione ed è libera di farlo. Ma non di suicidarsi. È libera di dire che preferisce la morte, ma noi abbiamo il dovere di fare tutto il possibile affinché ciò non avvenga (…) E come cerchiamo di salvare chi cerca di buttarsi dalla finestra, anche qui dobbiamo fare ogni tentativo possibile” (La Repubblica del 1 febbraio 2004). Comincia così una toccante lettera che Gaspare Barbiellini Amidei scrisse alla signora in questione: “Se lei ci regala la sua vita (…) se resta in mezzo a questo mondo dove milioni di uomini si svegliano ogni giorno cercando di non morire, le promettiamo, per quel che vale la parola di ognuno di noi, di aiutarla a rendere meno insopportabile la sua esistenza. Ci perdoni se non abbiamo argomenti più convincenti di questa offerta in qualche misura mercantile, se non sappiamo senza banali contropartite dimostrarle la bellezza di restare qua, nelle nostre città, consentendo l’intervento chirurgico, che le amputerebbe una gamba per fermare la cancrena (…)”. E così termina: “Sacro è il diritto alla sua vita e il diritto di essere padrona della sua vita (…). In prospettiva questi due diritti non sono mai in conflitto. Giudichi lei, signora, se resta più padrona di se stessa consentendo ai suoi medici di salvarla o impedendolo. E il mondo rispetta davvero la sua persona, come vuole la Costituzione, lasciando che la cancrena la uccida?” (Da: Signora, ci ripensi. Il Corriere della Sera, 1 febbraio 2004).
3 Il primo periodo del secondo comma fu “approvato con intendimento di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non siano volontariamente accettati dal paziente (si parlò di inammissibilità di “cavie umane”) e che “si volle soprattutto alludere a una esperienza storica e particolarmente alla sterilizzazione”, così in: FALZONE V, PARLEREMO F, CASENTINO F (a cura di). La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori. Milano: Mondatori; 1976: 115.
4 IADECOLA G. Note critiche in tema di testamento biologico. Rivista Italiana di Medicina Legale 2003; 3-4: 478.
5 Cfr.: CORTE DI CASSAZIONE. SEZIONE III CIVILE. Sentenza n. 10014 del 25 novembre 1994; CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III CIVILE. Sentenza n. 364 del 15 gennaio 1997. Legge 26 giugno 1967 n. 458, Trapianto del rene tra persone viventi. Gazzetta Ufficiale 27 giugno n. 160, edizione straordinaria; Legge 16 dicembre 1999 n. 483, Norme per consentire il trapianto parziale di fegato. Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 1999 n. 297 Serie Generale.
6 Decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, Nuovo Codice della strada. Gazzetta Ufficiale del 18 maggio 1992, n. 114, Serie ordinaria; PARLAMENTO EUROPEO E CONSIGLIO. Direttiva 2005/41/CE del 7 settembre che modifica la direttiva del 76/115/CEE del Consiglio per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative agli ancoraggi delle cinture di sicurezza di veicoli a motore. Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 255 del 30 settembre 2005: 149-151.
7 Decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, Testo Unico in materia di tutela della salute. Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008, Supplemento Ordinario n. 108.
8 Decreto legislativo 24 giugno 2003 n. 211 Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico. Gazzetta Ufficiale n. 184 del 9 agosto 2003.
* Carlo Casini è magistrato, Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo e Presidente del Movimento per la Vita italiano.
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