INDAGINI SUL SUICIDIO - di Francesco Agnoli - pubblicata da Il Timone Mensile Cattolico il giorno venerdì 3 dicembre 2010 - ANNULLA TUTTI I SIGNIFICATI, MA NON È SENZA SIGNIFICATO. - LA FEDE, IL MATERIALISMO, L’ORIENTE ESTREMO
Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”: così scriveva Albert Camus nel “Mito di Sisifo”. Questa frase ritorna attuale oggi con il dibattito sull’eutanasia, che andrebbe a mio avviso affrontato, appunto, insieme al problema del suicidio (e a quello della disgregazione familiare e della solitudine, metafisica e quotidiana).
Non è infatti un caso che la richiesta di legalizzazione dell’eutanasia cresca con il crescere, nel nostro occidente, del ricorso agli anti depressivi e al suicidio. Recentemente l’Oms ricordava che nel 2000 sono morte per suicidio circa un milione di persone, ben più che in tante guerre e calamità messe insieme, mentre “negli ultimi 45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del 65 per cento in tutto il mondo, in particolare tra i giovani”. Uno psicoterapeuta come Viktor Frankl, che sperimentò la durezza del lager, disse che quando c’è un perché, tutti i come diventano sopportabili. Se so perché vivo, se la preziosità della vita mi è chiara, se la vita come dono è un’idea radicata, ogni circostanza, benché dura, diventa più facilmente tollerabile.
Scriveva ancora Frankl, il quale definiva il nostro tempo “l’epoca del vuoto esistenziale”: “Se una persona è riuscita a porre le basi del significato che essa cercava, allora è pronta a soffrire, a offrire sacrifici, a dare anche, se fosse necessario, la propria vita per amore di quel significato. Al contrario, se non esiste alcun significato del suo vivere, una persona tende a togliersi la vita ed è pronta a farlo anche se tutti i suoi bisogni, sotto ogni aspetto, sono stati soddisfatti”. L’uomo è capace di adeguarsi a tutto, o quasi: solo che lo spirito sostenga il corpo, e se stesso; solo che lo spirito non sia ancora più debole del corpo. Se c’è un perché, tutti i come divengono più o meno sopportabili. E non vi è dubbio, a mio parere, che il perché vero sia solo e soltanto Dio, dal momento che tutti gli altri, in un momento o nell’altro, possono cedere. Un Dio personale che ci ha creato, che ci guarda e ci conosce e il cui amore rende preziosa ogni singola esistenza. Un Dio che manca ad esempio ai grandi popoli cinese e giapponese. Che, non a caso, hanno da secoli un triste primato dei suicidi.
In Cina e Giappone infatti il ricorso al suicidio è estremamente diffuso, amplissimo, e, quel che più interessa, accettato culturalmente. Parlando dei cinesi J. J. Matignon scriveva, all’inizio del Novecento, che il suicidio “si riscontra in tutte le classi e a tutte le età”, ed è spesso dettato anche da motivi che per la nostra cultura sono del tutto “futili”: per vendetta, per rancore, per collera o gelosia, per questioni di onore… “Capita che un mendicante attui la sua vendetta tagliandosi la gola davanti alla vostra porta”. Dall’India alla Cina, ricorda Marzio Barbagli, “darsi la morte per colpire un nemico, immolandosi con lui o facendogli ricadere addosso la colpa della propria morte, è una scelta messa a disposizione per secoli da culture diverse”. In entrambi questi paesi, poi, vi sono dei suicidi, come quello della moglie o della concubina sulla tomba del marito, che sono considerati meritori ed auspicabili. Un altissimo tasso di suicidi si registra anche in Giappone: 24, 4 ogni 100 mila abitanti, almeno 4 volte di più che in Italia, visto che il numero reale è in verità ben più alto. Il Giappone ha anche un primato nel numero dei giovani suicidi. Kamikaze e harakiri “sono le parole della lingua giapponese più conosciute nel mondo”. Qualche anno fa la “Guida al suicidio perfetto” dello scrittore Wataru Tsurumi, in cui si spiegava come uccidersi buttandosi dalla finestra o sotto il treno, divenne un bestseller con 550 mila copie in otto mesi.
Perché questo dramma? A prescindere dalle mille motivazioni che possono stare dietro un suicidio, è difficile non notare che anche nel ricco Giappone, come in Cina, l’uomo non è creatura unica, irripetibile, di un Dio che la ama fino a morire per lei. “I giapponesi – ricorda il nunzio apostolico in Giappone, Alberto Bottari de Castello-, non hanno un rapporto personale con Dio. Il concetto dell’individuo, che è al centro della cultura occidentale, non fa parte del loro Dna culturale. Si identificano con il gruppo, la società, l’azienda, la nazione. Quando un cristiano arriva alla decisione di togliersi la vita sa che sta per infrangere una regola sacra: la vita gliel’ha data Dio e solo Dio gliela può togliere. Il giapponese tentato dal suicidio non ha questo freno. Non ha il concetto del peccato. Non ha nessuno, non ha niente, all’infuori del proprio mondo materiale e culturale, a cui chiedere aiuto. Ma nel suo mondo chiedere aiuto è disonorevole, e allora deve risolvere all’interno di se stesso il dramma della propria infelicità, divenuta insopportabile. I cristiani, anche nei momenti più bui, possono sempre tendere la mano verso Dio. I giapponesi no. Hanno otto milioni di dei, migliaia di meravigliosi templi, santuari, altari, altarini, due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo, ma vivono senza il Dio unico onnipotente e misericordioso, senza il concetto di Dio padre di tutta l’umanità e presente in ciascuno di noi, sempre”. Nello stesso tempo in Giappone il buddismo è una religione atea che crede nella reincarnazione, cioè che nega, appunto, l’unicità di una vita personale. Il suicidio quindi non è considerato eticamente negativo, anzi è talora contemplato come possibile “soluzione” ad un determinato problema.
Maurice Pinguet, già direttore dell’Istituto franco-giapponese di Tokyo, nel suo “La morte volontaria in Giappone”, nota anzitutto il profondo immanentismo che caratterizza la cultura di questo popolo, e in secondo luogo mette in luce come in Giappone siano sempre esistite forme di suicidio che la cultura cristiana rifiuta: ad esempio il “suicidio di solidarietà”, in cui i genitori “coinvolgevano i loro figli nella morte, convincendoli, o a loro insaputa”. Infatti alla madre giapponese che uccide il figlio “non viene in mente che il bambino possa rappresentare una esistenza distinta, posta sin dalla nascita, o dal concepimento, sotto la sovranità di Dio”. Vi è poi, sempre nella cultura giapponese, il “suicidio di accompagnamento”: alla morte dell’imperatore, del sovrano, del padrone, funzionari, vassalli, servi lo hanno spesso accompagnato nella morte, eliminandosi. Vi è infine il suicidio come rituale, svolto con precisione e solennità: harakiri è l’atto di uccidersi lentamente, aprendosi il ventre, estraendone le viscere, “senza battere ciglio”. Del resto, se tutta la vita dell’uomo è qui ed ora, come protestare altrimenti la propria innocenza? Come lavarsi di una colpa, che altrimenti rimarrà per sempre? Come cancellare la vergogna? Come salvare l’onore?
Nessun commento:
Posta un commento