«Stato vegetativo», quel dizionario da pensionare - Le evidenze scientifiche rendono ormai sorpassata la definizione coniata nel 1972, nella quale c’è una nota quasi spregiativa nei confronti di pazienti assimilati alle piante, quasi non fossero persone. Invece oggi si succedono studi, firmati anche da italiani, che scoprono quello che 40 anni fa era impensabile - prospettive di Marco Mozzoni - Avvenire, 23 dicembre 2010
Lo Stato vegetativo (Sv) è una sindrome che necessita di una profonda revisione. La proposta arriva dalla «European Task Force on Disorders of Consciousness», gruppo di ricerca internazionale sui disordini della coscienza che fa capo al «Coma Science Group» di Liegi. Le ragioni addotte sono legate alla constatazione (abbastanza ovvia ma mai scontata, sembra) che la scienza ha fatto passi da gigante dal lontano 1972, anno in cui il termine « vegetative state » appariva per la prima volta sulla prestigiosa rivista Lancet per identificare una condizione clinica di grave alterazione dello stato di coscienza conseguente a un danno cerebrale che preservava appunto il funzionamento nervoso 'vegetativo' del paziente, cioè il ciclo sonno-veglia, la respirazione, la digestione o la regolazione termica.
«Persistente» è stato definito poi lo stato vegetativo protratto per più di un mese, mentre «permanente» quello di durata superiore a un anno in caso di lesioni traumatiche e a tre mesi in caso di danni cerebrali di altra natura. Negli ultimi 30 anni una mole considerevole di studi ha però messo in luce che lo stato vegetativo non è una condizione «statica e omogenea», come invece sembrava in origine. Con metodi di indagine sempre più sofisticati è stato infatti possibile riscontrare in questi pazienti la presenza di una attività cerebrale residua anche in risposta a stimoli complessi e una preservata capacità di elaborare a un certo livello emozioni e dolore, come bene ha evidenziato l’ampia rassegna di studi pubblicata di recente sul Journal of Psychophysiology dai medici italiani Walter G. Sannita, professore di neurologia al dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova, e Francesco Riganello, dell’Istituto Sant’Anna di Crotone.
Non solo: anche gli esiti clinici dei pazienti sembrano essere migliorati significativamente nel tempo, grazie ai progressi tecnologici e alle risorse messe a disposizione nelle unità di cura intensiva. Tanto che ben l’80% di queste persone può oggi recuperare la coscienza, il 50% di loro addirittura nell’arco di tre mesi. Nonostante ciò, come sottolinea il neurologo Steven Laureys, alla guida del team di ricerca belga, «il termine 'stato vegetativo' ha una accezione intrinsecamente negativa che induce la gran parte dei non addetti ai lavori e dei media a pensare a questi pazienti come a veri e propri vegetali». «È per questo motivo – prosegue Laureys – che diversi gruppi politici e religiosi si sono sentiti in dovere di enfatizzare i diritti inalienabili di queste persone, che restano a tutti gli effetti esseri umani».
Con la speranza di positive ricadute in termini di migliori standard di cura di questi pazienti, forte delle evidenze scientifiche accumulate e proprio nell’ottica di superare tale scoglio, la task force capitanata da Laureys ha dunque intrapreso un processo di revisione nosografica del disturbo. La proposta alla comunità medica internazionale di «un nuovo termine descrittivo neutro col quale riferirsi alla complessa condizione in cui si può trovare una persona che, al risveglio dal coma, non riesce a recuperare la capacità di rispondere volontariamente agli stimoli dell’ambiente ma che può manifestare segni seppur minimi di coscienza» ha visto la luce sull’ultimo numero della rivista Bmc Medicine . È nata così la « Unresponsive Wakefulness Sindrome » (Uws), uno spettro dinamico fra il coma e la coscienza che non ha ancora un equivalente in lingua italiana. «Cambiare il nome di una malattia – confessa raccomandandoci cautela il professor Sannita, della European Task Force on the Vegetative State – è sempre un rischio in termini di comunicazione, perché come abbiamo visto i nomi tendono a restare anche se inesatti»...
Recepiamo il messaggio e ci asteniamo dal cimentarci in una improbabile traduzione, in fiduciosa attesa però degli sviluppi da parte della comunità scientifica del nostro Paese.
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