LA FABBRICA DEL VELENO di Giovanni Valentini, La Repubblica, 23 OTTOBRE
2012 – http://www.dirittiglobali.it
E ADESSO? Che cosa diranno i signori dell’acciaio, i profeti dello
sviluppo a tutti i costi, i nemici dell’ambiente e della salute collettiva di
fronte all’agghiacciante rapporto dell’Istituto superiore di Sanità?
IL SENSO della decenza — se non
quello dell’etica — vorrebbe che riconoscessero i propri errori e si
assumessero le loro responsabilità. I dati diffusi pubblicamente dal ministro
Balduzzi non ammettono repliche. Non solo documentano il lugubre record della
mortalità a Taranto e in provincia rispetto al resto della Puglia. Ma
dimostrano in modo irrefutabile la correlazione fra i veleni emessi dallo
stabilimento dell’Ilva e l’incidenza dei tumori nella popolazione locale,
uomini, donne e bambini. Un disastro ambientale e sanitario che grida vendetta.
Ma basterebbe fare un po’ di giustizia, come i magistrati di Taranto stanno
cercando faticosamente di fare, almeno per fermare la catastrofe e impedire che
produca altri danni, altre vittime, altre morti. Ecco, adesso, la vera
emergenza.
Fin dall’inizio di questa
vicenda, aperta da una coraggiosa iniziativa giudiziaria, stiamo assistendo
invece a un indegno talk-show di polemiche, a un rimpallo di responsabilità,
insomma a uno scaricabarile tanto ipocrita quanto inaccettabile. E sul piano
personale spiace dirlo, in questa invereconda rappresentazione corale, si
distingue purtroppo il ministro dell’Ambiente: lo stesso che aveva esordito
evocando un impraticabile ritorno al nucleare e che ha continuato e continua a
dissimulare la gravità dei dati sul disastro di Taranto, quasi spacciandola per
una storia vecchia, risolta, superata. Salvo poi querelare il leader dei Verdi,
Angelo Bonelli, come se fosse colpevole di aver diffuso notizie false e
tendenziose invece di aver denunciato una drammatica realtà.
È sempre la maledizione della
diossina che, come a Seveso nel 1976, incombe su un’intera collettività: sugli
operai dell’Ilva, innanzitutto, ma anche sulle loro mogli e sui loro figli,
sulla popolazione di tutta una città e una provincia. Un pezzo di quel Mezzogiorno
condannato a un illusorio futuro di sviluppo, nel segno di
un’industrializzazione selvaggia. Ma che razza di progresso è mai quello che
compromette la salute della gente, che esige il prezzo di tante vite umane? Ora
il ministro Balduzzi ammette candidamente di essere rimasto «un pochino
sorpreso» e confida «la sensazione che a questo punto si debba fare di più».
Non bastano le malattie respiratorie e circolatorie, i tumori polmonari, quelli
al fegato, al colon, alla prostata o alla vescica, per convincere il governo
dei tecnici a intervenire con la massima rapidità e decisione? Si fa presto a
dire che «anche rimanere senza lavoro ha poi conseguenze sullo stato della
salute ». È troppo facile e comodo. Si ha quasi la “sensazione”, per usare il
linguaggio ministeriale, che sia un “pochino” demagogico. E comunque, oltre che
per gli operai di Taranto, il discorso dovrebbe valere per quelli dell’Alcoa,
per i tanti disoccupati, cassintegrati, prepensionati, esodati, giovani e donne
che, specie al Sud, cercano lavoro e non lo trovano.
L’alternativa, per l’Ilva e per
tutti i casi analoghi, in un Paese civile non può essere o la borsa o la vita.
L’acciaio o la salute. L’occupazione o l’avvelenamento. Quella fabbrica
infernale va messa al più presto in condizioni di sicurezza, magari utilizzando
gli stessi operai ai quali occorre garantire la continuità salariale. Chi
inquina, paga, si diceva una volta. E chi ha inquinato, deve pagare.
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