Quando il bambino down è «meno persona» di Alberto Gambino - La
preoccupante sentenza della Cassazione che ha risarcito genitori e figlio down
perché non avrebbe dovuto nascere ha rotto un’altra diga giuridica ipotizzando
un «diritto a non nascere se non sani» –
Avvenire, 22 novembre 2012
Non si sono ancora spenti gli
echi della decisione della Corte di Cassazione che ha attribuito un
risarcimento del danno per mancata informazione della sindrome di down, non
solo ai genitori ma anche alla bambina. Nei giorni scorsi un gruppo di giuristi
delle migliori scuole della civilistica italiana si è riunito per discutere e criticare
quella che appare una decisione che riduce la vita delle persone con disabilità
quale risultato di una mancata scelta abortiva, facendo trapelare un
inaccettabile diritto a non nascere se non sani. La vicenda, come noto, riguarda un medico che
non ha adeguatamente informato una
coppia sulle possibili patologie cui il feto poteva essere affetto. La bambina
è poi nata con sindrome di down e i genitori hanno chiesto il risarcimento del
danno al medico. In questo caso si è stabilito che anche la bambina ha diritto
a un autonomo risarcimento di danno.
ll ragionamento è il seguente:
poiché la madre ha il diritto di conoscere lo stato di salute del feto e, in
base alla legge 194, di chiedere eventualmente l’interruzione di una gravidanza
che si ritiene possa comportare una lesione psico-fisica, ove questo potere non
sia effettivamente esercitato a causa della mancata informazione medica non
solo la madre ma anche il bambino, la cui esistenza è segnata, ha diritto al
risarcimento del danno. Già ma di quale
danno stiamo parlando? Il bambino, a ben leggere la sequenza degli eventi, non
è stato danneggiato, essendo già in utero portatore dalla sindrome di down e,
dunque, non si può avanzare la pretesa di una violazione al suo diritto alla
salute, configurata nella sua patologia sin dal concepimento e non certo
provocata dalla mancata informazione del medico. In realtà con la sottile
definizione utilizzata dalla Cassazione per affermare l’insorgenza del danno,
individuato nella «nascita malformata, intesa come condizione dinamica
dell’esistenza riferita a un soggetto di diritto attualmente esistente» (sono
le parole che utilizza l’estensore della sentenza), si finisce con l’inquadrare
l’inizio dell’evento dannoso nel fatto stesso della nascita così cadendo nella
dinamica di una sorta di «diritto a non nascere se non sani», che – almeno a
parole – la Cassazione nelle sue 76 pagine avrebbe voluto sgomberare dal campo.
Persona e salute sembrano cioè
viaggiare su binari distinti. Emerge una condizione di discontinuità soggettiva
nella titolarità di un diritto alla salute tra la fase prenatale e la nascita,
dove l’evento nascita fungerebbe, allo
stesso tempo, da fatto attributivo di un diritto (alla salute) ed evento causale del danno (la "nascita malformata"),
quando è invece pacifico che il diritto alla salute, nelle condizioni date dalla
natura, riguardi anche la vita fetale. La
decisione centra in pieno l’esito che decenni di giurisprudenza italiana sul
tema erano riusciti a evitare, facendo riemergere un ragionamento finora
scongiurato: sono nato con alcune disabilità, e se lo avessi saputo avrei
preferito non nascere; poiché tu medico non hai allertato i miei genitori – i
quali, sapendo della mia sindrome, non mi avrebbero fatto nascere – ora ti
chiedo il risarcimento del danno. Il danno è quello di una vita insopportabile
anziché la sua soppressione. E, tra l’altro, giudizialmente parlando, lo
reclamano, non il bambino ma, a suo nome, i genitori.
Se la linea della Cassazione
trovasse terreno fertile nelle decisioni successive, l’inevitabile conseguenza
logica sarà che d’ora in avanti qualsiasi persona con disabilità andrebbe
valutata, in punto di tutela risarcitoria, in modo diverso a seconda che la sua
nascita sia o meno frutto di una libera scelta dei genitori: nel primo caso, essa
mai potrebbe reclamare un risarcimento; mentre ove, per un errore di
informazione medica, la nascita sia da considerare indesiderata, la persona
disabile andrebbe risarcita «affinché quella condizione umana ne risulti
alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole» (di nuovo parole
dell’estensore della sentenS za). Dunque, seguendo il ragionamento della
Cassazione, davanti a uno stesso evento "dannoso" e a uno stesso
diritto soggettivo avremmo due trattamenti diversi delle persone nate con sindrome
di down. Può questa disparità giustificarsi a causa della violazione di un
diritto altrui (il mancato libero esercizio del potere di interrompere la
gravidanza da parte della madre)?
In realtà, con la configurazione
di un bene-salute del feto poi bambino, menomato naturaliter per un fattore
risalente al concepimento, ma risarcibile solo in ragione dell’evento della
nascita non desiderata dalla madre, si finisce per scivolare dentro una vicenda
che degrada, almeno in termini giuridici, il significato dell’esistenza umana
sradicandola dal suo essere «valore giuridico in sé» (come la stessa
giurisprudenza di legittimità ha più volte ricordato). In altri termini, il
ruolo della tutela risarcitoria da strumento di protezione delle persone e del
loro patrimonio sconfina verso compiti impropri che rischiano di comprimere la
lettura sociale della vita delle persone con disabilità entro limiti angusti,
in totale distonia con la ricchezza umana, sociale e solidale che entro tali
relazioni interpersonali quotidianamente si rappresenta. Deriva finora
scongiurata dalla civilistica italiana, nelle sue componenti dottrinali e
giurisprudenziali.
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