domenica 3 ottobre 2010

VALE ANCORA IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE? - di Cristina Rolando*
ROMA, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Ogni volta che si dibatte del ruolo del medico nei confronti delle pazienti che vogliono abortire o dei malati che vorrebbero morire, c’è sempre qualcuno che ricorda il Giuramento di Ippocrate, un “giuramento” che pare risalga al 400 a.C. e che viene sottoscritto da medici, odontoiatri e veterinari prima di iniziare la professione.
Ma cosa è scritto in questo Giuramento?

“Affermo con giuramento per Apollo medico e per Esculapio, per Igiea e per Panacea – e ne siano testimoni tutti gli Dei e le Dee –, che per quanto me lo consentiranno le mie forze e il mio pensiero, adempirò questo mio giuramento che prometto qui per iscritto.
Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita; considererò come miei fratelli i suoi figli e, se essi vorranno apprendere quest’arte, insegnerò loro senza compenso e senza obbligazioni scritte, e farò partecipi delle mie lezioni e spiegazioni di tutta intiera questa disciplina tanto i miei figli quanto quelli del mio maestro, e così i discepoli che abbiano giurato di volersi dedicare a questa professione, e nessun altro al di fuori di essi.
Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa. Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere.
Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire,ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la mia vita sia la mia arte. Non opererò i malati di calcoli lasciando tale compito agli esperti di quell’arte. In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi, rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di usata corruzione, e soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che servi. Tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò  visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra. Che io possa, se avrò con ogni scrupolo osservato questo mio giuramento senza mai trasgredirlo, vivere a lungo e felicemente nella piena stima di tutti, e raccogliere copiosi frutti della mia arte. Che se invece lo violerò e sarò quindi spergiuro, possa capitarmi tutto il contrario”.

Leggendo il testo, possono individuarsi i caratteri ontologici fondamentali della professione medica. In primis, la necessità – per chi già la esercita e a fortiori per chi si accinge ad intraprenderla – di proferire il giuramento al cospetto della divinità, trattandosi di attività sacra; infatti, gli dèi sono invocati non in funzione di ausilioma a testimonianza del carattere solenne conferito alla promessa.

Ed è proprio questa valenza a rendere ragione della comunanza di vita e di intenti tra adepti, nonché del loro reciproco rapporto con i docenti.

La medicina dunque non si configura, sic et simpliciter, come una professione affine ad altre per elementi formali o strutturali, ma rappresenta un’arte suggellata da un vincolo sacro. Trasmettere questi insegnamenti significa, in altri termini, indicare un modo di essere e uno stile di vita, suggellando, al contempo, un debito di gratitudine che non si estingue con la morte del maestro ma che si tramanda naturaliter anche ai discepoli.

Questa concezione della medicina rende ragione del fatto che non può essere ridotta tout court a “professione”ma deve, invece, essere elevata a vocazione; una vocazione che coinvolge tutta la persona semel per semper, proprio in funzione dell’impegno irrevocabile insito nel Giuramento stesso (“…se sarò traditore e spergiuro…”).

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