venerdì 15 ottobre 2010

IL CASO/ In Europa il "partito" degli abortisti nega i diritti che non fanno al caso suo Redazione - venerdì 15 ottobre 2010 – il sussidiario.net

Rilevo una tendenza contrastante della nostra società post-moderna. Più aumentano le tensioni soggettivistiche volte a dar rilievo giuridico alle istanze più personali e particolari delle persone e più aumenta la rilevanza che l’autorità dà alla coscienza di ogni singolo uomo, ed al suo libero sviluppo, quale principale criterio di riferimento per l’individuazione di nuove pretese tutelate; più, dall’altra parte, si riscontra la tendenza ad una limitazione della medesima coscienza nel suo rapporto con l’autorità, ad una compressione del diritto di ciascuno di obiettare alla legge scritta.

In sostanza, ad un maggior grado di tutela dell’autodeterminazione corrisponde una minore libertà di esercizio dell’obiezione di coscienza. Si prendano alcuni recenti casi. Nell’ambito internazionale dei diritti umani si tende a proclamare in tutte le versioni e le colorazioni possibili la più ampia tutela ed il più ampio esercizio della libertà (compresa quella - questa volta la novità viene dall’Australia - di pubblicizzare l’eutanasia mediante apposito spot televisivo, da parte di una multinazionale il cui nome è significativamente Exit International).

Contemporaneamente si pone in discussione alla seduta plenaria del Parlamento Europeo di pochi giorni fa (8 ottobre) la risoluzione Women’s access to lawful medical care: the problem of unregulated use of conscientious objection (“Accesso delle donne a cure mediche legali: il problema di un uso non regolamentato dell’obiezione di coscienza”). Per inciso, l’eufemismo medical care sta in realtà per aborto. Si pensi a quale grado di stravolgimento può giungere il significato assegnato a parole e frasi.

La proposta è volta a limitare la libertà di esercitare l’obiezione di coscienza, bilanciando il diritto al suo esercizio con il diritto, affermato come  sacrosanto, della donna alla “cura medica” (leggi: aborto) richiesto, che dovrà essere “rispettato, protetto ed adempiuto in tempi ragionevoli”.

Poco tempo fa avevamo assistito al caso suscitato dalla delibera della giunta regionale di Vendola del marzo di quest’anno, mirante a discriminare i ginecologi obiettori di coscienza, assegnando ai consultori pubblici solo personale medico ed ostetrico “non obiettore”, così da bilanciare il personale e garantire “il diritto” delle donne di abortire. Il tutto è stato deciso a favore del “potenziamento del percorso di nascita”. Altro bell’esempio di stravolgimento lessicale e sostanziale.

Mi sono domandato il perché di questo strabismo. Ad una rivalutazione della coscienza in senso garantistico di riconoscimento di diritti collegati al suo libero esprimersi, dovrebbe corrispondere un rafforzamento di quelle scelte “di coscienza” che si affermino anche contra legem, ossia in alternativa alla scelta compiuta dall’autorità. Eppure avviene il contrario.

Una spiegazione mi è parsa evidente leggendo Elogio della coscienza, dell’allora cardinal Ratzinger (apparso sul Il Sabato del 16 marzo 1991). Spesso - vi si dice - “la coscienza non si presenta come la finestra che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità”.

Spesso essa “sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nasconderlesi… L’essere convinto delle proprie opinioni, così come l’adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti. L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde, tanto meglio è per lui”.

Se si riduce la coscienza dell’uomo a “l’autocoscienza dell’io, con la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale” (che, peraltro, “può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e delle opinioni ivi diffuse”), allora si capisce come l’autorità possa, da una parte, dare rilievo a quelle opzioni di scelta più intime e personali dell’uomo, corrispondenti alla coscienza individuale, e rientranti in una sfera talmente privata da non consentire intromissioni altrui, neppure dell’autorità; dall’altra parte, impedire qualunque forma di ribellione della coscienza soggettiva alle decisioni dell’autorità, derivandone altrimenti una spinta eversiva moltiplicata per le singole coscienze, ognuna potenzialmente ribelle.

Se coscienza significa piuttosto presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso (per dirla con il beato Newman, la cui figura è stata ricordata pochi giorni fa dal Papa in terra inglese), allora ne risulta che anche nelle scelte più intime del singolo è presente l’elemento della relazionalità che lo costituisce come persona; e l’obiezione di coscienza, lungi dal rappresentare un momento eversivo, costituisce invece il più alto e vero concetto del diritto come giustizia.

Nell’obiezione di coscienza è dunque presente un anelito di giustizia del caso singolo, per l’obiettore che si contrappone ad una singola norma avvertita come ingiusta; e, nello stesso tempo, è presente una giustizia pensata e postulata come universale, valida per tutti perché riferibile a quel nucleo di valori che sono iscritti ab origine nel cuore-coscienza di ogni singolo uomo.

Da questo punto di vista vanno salutati positivamente gli esiti delle due vicende sopra indicate: il TAR della Puglia ha annullato il provvedimento della giunta Vendola, ed ha precisato che impedire la presenza di medici obiettori nei consultori “viola il principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., oltre che i principi posti a fondamento della obiezione di coscienza (libertà religiosa e di coscienza ex art. 19 Cost. e libertà di manifestazione dei pensiero di cui all’art. 21 Cost.).

Contrasta altresì con l’art. 4 Cost. relativo al diritto al lavoro realizzando una inammissibile discriminazione stigmatizzata peraltro dall’art. 3, comma 1, lett. A, d.lgs. 216/2003 (‘Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione’)”.

Anche l’assemblea parlamentare del Consiglio di Europa, nella seduta dell’8 ottobre, ha capovolto la risoluzione della parlamentare inglese Christine McCafferty, che, in casi di aborto, voleva limitare il ricorso all’obiezione di coscienza, accusata - dalla presentatrice - “di mettere in pericolo la vita delle donne”. Così il parlamento ha completamente cancellato il paragrafo uno della risoluzione in cui si esprimeva “profonda preoccupazione per il ricorso crescente non sufficientemente regolamentato alla obiezione di coscienza in molti stati membri, in particolare nel campo della salute riproduttiva” (ancora stravolgimenti edulcoranti).

L’assemblea ha così ribadito (per la verità, ha dovuto ribadire ciò che sinora figurava nei diritti umani affermati internazionalmente) che “il diritto all’obiezione di coscienza è una componente fondamentale del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In materia di cure mediche, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo garantisce questo diritto tanto alle persone che alle organizzazioni regolate da determinati principi etici”.

E’ stato disconosciuto l’obbligo  per il medico di fornire la “cura” prevista se la paziente ne ha diritto (come voleva la McCafferty). Si è invece ribadito che “nessuna persona, nessun ospedale o istituzione sarà costretta, ritenuta colpevole o discriminata in qualsiasi maniera per il rifiuto di effettuare o assistere ad un aborto, di manipolazione umana, di eutanasia o qualsiasi atto che potrebbe causare la morte di un feto o un embrione, per qualsiasi ragione”.



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