La vita fragile - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 19 maggio 2011
Il suicidio di un giovane, la malattia di un amico, l’infermità di un parente o l’affronti sperando che “passino” che il tempo getti polvere sulle ferite mascherandole, oppure ti lasci ferire, interrogare.
La verità è che non sappiamo più chi siamo, non sappiamo giudicare le cose elementari della vita, a forza di ripeterci che “non c’è nulla di male” che “va rispettata la libertà altrui, sempre e comunque” l’esprimere la libertà è diventato un’assenza di giudizio.
Poi, accade che la vita ti porti a confrontarti con certi episodi, con certi fatti, dove se sei sincero almeno con te stesso, non puoi non lasciarti interrogare.
Il suicidio di un giovane, la malattia di un amico, l’infermità di un parente o l’affronti sperando che “passino” che il tempo getti polvere sulle ferite mascherandole, oppure ti lasci ferire, interrogare.
Vale la pena di vivere sempre?
Se non vale la pena, chi decide quale vita è meno degna di un’altra?
Quando sei in salute, hai gli elementi per dire, “piuttosto che così, morto”?
Esempio concreto. Italo è un uomo di non ancora settant’anni, è in pensione, vive tranquillamente con sua moglie, fa il nonno, si occupa del bar dell’oratorio, da anni è affetto da una malattia che gli procura parecchi dolori, ma lui non si scoraggia, ha perso la capacità di usare la mano destra e caparbio ha imparato a scrivere con la sinistra, si arrabbia quando non riesce ad allacciarsi le scarpe o i polsini della camicia, ma con fatica ha imparato a lasciarsi aiutare, a volte è scontroso, non sopporta la maleducazione di certi giovincelli che frequentano il bar, o se la prende con qualcuno che vorrebbe dargli una mano, la verità è che la sua vita è una piccola battaglia quotidiana e chi lo ama, lo capisce.
Poi un giorno un ictus, inizialmente sembra poca cosa, fa in tempo a scusarsi con i familiari per averli disturbati per nulla, ma la situazione precipita e in breve rimane paralizzato. Può muovere solo gli occhi, fare le linguacce e ironia della sorte l’unica mano che può muovere, è quella malata, rattrappita di suo.
Non bastasse, lo aggrediscono delle infezioni e così non si può tentare nemmeno la riabilitazione, passano i mesi e tu guardi quest’uomo con il quale non puoi entrare in contatto se non con una carezza, un dialogo cui non può rispondere, guardi sua moglie che indaga ogni battito di ciglia, ogni piega sulla fronte per capire se è arrabbiato o sereno, lo guardi e capisci che è umano pensare “liberalo dal male” lo ha pensato persino Cristo sulla croce, ma non puoi negare che quello che sta di fronte a te è un uomo vivo. E’ lo stesso padre, marito, amico, di cinque mesi fa.
Solo che ora ha bisogno di tutto e di tutti, lo alimenta la flebo, lo accudiscono gli infermieri e capisci che qui, dal modo di fare, di rapportarsi con lui sta la capacità di queste persone di dare dignità al malato.
Puoi fare bene il tuo lavoro, eseguendo alla perfezione il protocollo ma pensando che sia una vita sprecata, inutile, oppure, accudirlo pensando che quella persona di cui ti stai prendendo cura ha una dignità, una fragilità da proteggere, qui sta la differenza, e lui lo sa, lo sente.
Guardo sua moglie che da mesi ogni giorno gli parla, lo accarezza, si accontenta che per risposta lui apra gli occhi o tiri fuori la lingua, la guardo mentre prima di lasciarlo recita a voce alta una preghiera con lui.
Certo, è un calvario, chi vorrebbe essere al suo posto, chi da sano non direbbe “per carità mi sia risparmiata una simile sofferenza” ma lui è un uomo, e lasciare che degli uomini sani, decidano cosa fare della loro vita nel caso diventino malati è pericoloso, perché sdogana l’idea che la vita è dignitosa solo se sana e che se un essere è debole, malato, fragile, il suo persistere al mondo è un atto di egoismo.
Non ci resta che sperare ci siano medici capaci di agire nel tuo interesse, di guardarti come un uomo sempre, che non si accaniscano nel volerti curare, ma che ti guardino non come un malato ma come un uomo, non ci resta che sperare che ci siano maestri capaci di insegnare il rispetto per la dignità dell’uomo, genitori capaci di testimoniare ai figli che il nonno non è un vuoto a perdere, che l’handicappato non è una fatica, certo è anche una fatica, ma quale figlio non lo è? Ma è soprattutto un’occasione per tutti, di scoprire un’altra dimensione del vivere, di stare di fronte alla dignità dell’uomo e quindi del mondo intero.
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