Se uno degli sposi è sieropositivo / L’amore coniugale ai tempi dell’Aids di Juan José Pérez-Soba (© L'Osservatore Romano 25 maggio 2011)
«Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne» (Genesi, 2, 24). Questa affermazione apre a un contenuto sorprendente circa la verità dell’amore sponsale, in quanto luce fondamentale per la vita degli uomini.
La rivelazione divina ci presenta l’amore umano in un modo nuovo poiché lo inserisce in un disegno di Dio, che si svela nelle esperienze umane più elementari. Il nuovo orizzonte che esse acquistano partendo da Dio, è il valore genuinamente personale di tali relazioni nelle quali si costituisce l’identità di ogni uomo. In particolare, si scopre così la dimensione del dono di sé tipica dell’amore coniugale, che spiega l’esigenza di lasciare «suo padre e sua madre» e il cui contenuto e scopo è quello di essere «una sola carne». Questa nuova condizione è un vincolo spirituale reale nella corporeità dei contraenti, poiché il corpo dello sposo non è più per lui stesso, ma per la sposa, e viceversa (I Corinzi, 7, 4). Inoltre, il contesto della Genesi intende l’«essere una sola carne» con un senso di fecondità che fa parte dell’immagine divina, giacché l’amore di Dio è fonte di ogni paternità (Efesini, 3, 15) e il significato si ricollega alla benedizione che i primi sposi ricevono da Dio (Genesi, 1, 28).
Questo contesto dell’amore indica il significato profondo della sessualità. L’uomo isolato non è fecondo («Non è bene che l’uomo sia solo», Genesi, 2, 18), necessita dell’unione con la donna per esserlo. L’unione nella carne è segno della fecondità per mezzo di un dono di sé nell’ambito di un amore coniugale, che comprende la dimensione della differenza intrinseca alla sessualità. La verità dell’amore personale appare dunque in una dinamica di unità nella differenza che comporta una promessa di fecondità. Questo dinamismo amoroso trova la sua espressione archetipica nell’amore coniugale. È qui che si crea il luogo nel quale Dio stesso può intervenire con il dono del novum, ovvero di una nuova persona unica e irripetibile, con un destino eterno. Tale possibilità non si riduce a un mero fatto biologico: è una vocazione di Dio che richiede una risposta adeguata da parte dell’uomo.
Il valore dell’essere «una sola carne» mediante un dono di sé costituisce il fondamento di quella verità normativa che Paolo VI afferma con autorità in Humanae vitae (n. 12): «(la) connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo». È la «carne» che unisce il dono degli sposi con la promessa di fecondità. Se l’uomo priva l’unione sessuale dei suoi significati unitivo e procreativo, attenta contro il vero amore.
L’amore coniugale è dunque una luce specifica della verità dell’uomo che consente di scoprire il senso della vita, in quanto nasce come dono ed è vissuto in riferimento al dono di sé. Pertanto, possiede un senso morale pieno. Non si tratta di una semplice relazione di contiguità accidentale, ma è l’espressione autentica di un senso che coinvolge l’atto coniugale in quanto tale. La sessualità umana chiede di essere configurata mediante l’amore sponsale e, in esso, raggiunge il valore di una pienezza di vita che gli sposi non possono falsificare. In questo senso, la norma così poco compresa della Humanae vitae (n. 11) secondo cui «qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita» è estremamente chiarificatrice. La definizione dell’intenzione contraccettiva si basa sulla differenza tra il «rendere infecondo un atto» e il «realizzare un atto non fecondo». Nel primo caso, la non fecondità appartiene all’intenzione della persona che la impone all’atto, mentre nel secondo, si tratta di una caratteristica biologica dell’atto sessuale. Soltanto la prima, in realtà, è ricercata intenzionalmente e possiede quindi un rilievo morale. Lo si può vedere, peraltro, adottando una prospettiva più ampia dell’essere «una sola carne», laddove il rifiuto di una donazione corporea completa presuppone anche una rottura del significato unitivo, che è ben più di una semplice unione fisica. Si tratta di una considerazione molto lontana dal fisicismo, che sacralizza indebitamente la biologia, ma che esprime il carattere personale dell’amore nella carne. Così si può evitare il rischio di un teleologismo che vede nel sesso soltanto un materiale plasmabile secondo la propria volontà.
Questa è una luce potente sull’amore coniugale da cui gli sposi debbono lasciarsi illuminare per rispondere alle varie situazioni che si presentano nella loro vita matrimoniale, e che talvolta sono grandi prove. Nel consenso del matrimonio, essi si promettono di essere fedeli «nella buona e cattiva sorte, nella salute e nella malattia» grazie a un amore che non dipende da circostanze esterne, ma che sa esprimere la fedeltà in maniera creativa nelle vicende dell’esistenza umana.
Una situazione d’attualità è legata alla proliferazione delle infezioni a trasmissione sessuale che colpisce la vita intima dei coniugi; nella fattispecie, per estensione e gravità, l’Aids risveglia drammatici quesiti. Per combattere questa malattia, negli ambiti sanitari e politici, è stato insistentemente raccomandato l’uso preventivo del profilattico. Da qui nasce la domanda etica circa la liceità del suo eventuale uso nel caso di una coppia in cui uno dei coniugi fosse infetto.
Per rispondere al problema, è necessario che vi sia una corretta informazione circa la situazione sanitaria rispetto a questa terribile malattia, al fine di esercitare una concreta responsabilità dinanzi a una situazione che contiene una minaccia di morte. La medicina ha compiuto progressi enormi e la malattia, per coloro che possono avere accesso ai farmaci, è stata fortemente controllata. L’aspettativa di vita degli ammalati è sensibilmente aumentata e il loro stato di salute generale è decisamente migliorato. Si è addirittura affievolita la possibilità di contagio e, soprattutto, le nuove tecniche hanno fatto sì che nella maggior parte dei casi, i bambini nati da mamme infette possano venire al mondo sani. È necessario prestare la dovuta attenzione a questi dati per valutare con esattezza gli effetti che un eventuale contagio comporta sulla salute umana.
In questo senso, è bene ricordare che sebbene l’uso del preservativo in un singolo atto possa avere una certa efficacia nella prevenzione del contagio dell’Aids, questo non è comunque in grado di garantire una sicurezza assoluta neanche nell’atto in questione e, meno ancora, nell’ambito dell’intera vita sessuale di una coppia. È quindi improprio indicarne l’uso come un mezzo efficace per evitare il contagio. Le numerose campagne che invitano a utilizzarlo indiscriminatamente hanno mostrato piuttosto il contrario; alimentando una falsa credenza secondo cui non vi sarebbe alcun pericolo, hanno aumentato la possibilità di infezione. Presentare il preservativo come una soluzione al problema è un grave errore; sceglierlo semplicemente come pratica abituale è una mancanza di responsabilità nei confronti dell’altra persona.
Ma veniamo ora alla prospettiva propriamente etica. La luce dell’amore coniugale rifiuta di percorrere le vie che lo corrompono. È a partire da qui che si evidenzia la falsità della cosiddetta soluzione tecnica del preservativo. Un atto sessuale realizzato con il preservativo non può essere considerato un atto pienamente coniugale nella misura in cui è stato volontariamente privato dei suoi significati intrinseci. Il profilattico, con il suo effetto barriera, deforma in qualche modo la realizzazione stessa dell’atto sessuale e lo priva non soltanto del suo significato procreativo, ponendo un impedimento alla fecondazione, ma spezza anche il significato dell’essere «una sola carne» nel senso della totalità del dono in un’unione sponsale. Non è veramente unitivo un rapporto che, impedendo intenzionalmente la comunicazione dello sperma, esclude la possibilità della sua accoglienza nel dono reciproco dei corpi dei coniugi. In definitiva, dal punto di vista morale si tratta di un atto non pienamente coniugale. Questo è il giudizio etico generale nei riguardi di questo atto, senza entrare ancora nella considerazione prudenziale circa il rischio di infezione che si corre.
A partire da questo giudizio, la luce dell’amore coniugale consente ai coniugi di affrontare la situazione impegnativa che vivono e che chiede risposte all’altezza delle gravi difficoltà che si presentano loro. Pertanto, dinanzi alla possibilità insuperabile del contagio, possono di comune accordo adottare la decisione di astenersi dall’avere rapporti sessuali per ragioni di salute, come avviene con altre patologie. La loro promessa sponsale contiene l’impegno di rispondere con generosità: in questa difficile situazione, debbono trarre dall’impegno che hanno preso, la forza necessaria per vivere la verità della loro vocazione, fidandosi della grazia di Dio e cercando l’accompagnamento della Chiesa che li assiste lungo il loro cammino.
La luce specifica del disegno di Dio serve affinché l’amore coniugale degli sposi trovi sempre una risposta adeguata che deve essere vissuta responsabilmente, anche e soprattutto nei momenti di grande prova. È un’affermazione convinta del valore della vita umana, alla luce di un amore che chiede di essere vissuto in totale pienezza.
Juan José Pérez-Soba, docente di teologia morale presso la facoltà di teologia San Dámaso di Madrid e presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia.
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