martedì 9 ottobre 2012


Comunicato Stampa n. 133
LA LEGGE 194 SULL’ABORTO: CONTRO IL DIRITTO E LA GIUSTIZIA - http://www.comitatoveritaevita.it

 La sentenza della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per la nascita indesiderata di una bambina down ai genitori, ai fratelli e alla stessa interessata, contiene un passo davvero significativo:

 “La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte dell’ordinamento, in termini di ‘sommo bene’, di alterità normativa superiorem non recognoscens, (…) è percorsa da forti aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positivo.

Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pure nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del ‘diritto’ del feto a venire alla luce, in funzione non soltanto della tutela del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, ma dello stesso alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre”. Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se a confrontarsi fossero davvero, in una comprovata dimensione di alterità soggettiva, un superiore diritto alla vita e un (“semplice”) diritto alla salute mentale”.



La legge positiva, quindi, contro gli “aneliti” giusnaturalistici. La vita degli uomini non più “sommo bene”, ma permessa o negata così come ha deciso il legislatore. Il giudice che si sente “soggetto solo alla legge” tralascia questi aneliti – cioè: non si chiede se la legge è giusta o meno – e passa oltre, applicando la legge.



Ma applicando la legge sull’aborto, i risultati sono inevitabili: il bambino prima di nascere non ha nessun diritto, tanto che la parola, riferita al feto, viene messa tra virgolette (“diritto” del feto a venire alla luce); e così – con acrobazie dialettiche degne di miglior causa – il diritto della bambina down ad essere risarcita dal ginecologo per non essere stata abortita viene giustificata, non in base ad un “diritto a non nascere se non sano”, ma alla necessità di alleviare “la sua stessa esistenza diversamente abile” resa necessaria dall’impossibilità per la madre di ucciderla.

Non seguiremo certamente la Corte nelle sue evoluzioni, dalle quali traspare l’ambizione di fare notizia sulle riviste giuridiche (“la Cassazione francese l’ha già detto nel 2001: e noi?”). Il risultato grottesco è che, se la madre avesse potuto uccidere la sua bambina, tutto sarebbe stato a posto; ma poiché il ginecologo – per fortuna, diciamo noi! – non aveva proceduto all’amniocentesi, dovrà pagare una bella somma alla madre, a tutta la famiglia e alla stessa bambina …



Ma si tratta davvero di semplice “applicazione della legge” sull’aborto? La sentenza dimostra quanto sia esatta quella concezione giusnaturalista secondo cui una legge ingiusta è una “non legge”.

Così rifugiandosi dietro lo schermo delle regole della legge 194, la Corte ha le mani libere: può citare la “natura”, per giustificare la inevitabile libertà della donna di abortire, ma anche menzionare la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sulla diagnosi genetica preimpianto (benché emessa dopo l’udienza di discussione della causa e “ancora inedita” nonché, come tutti sanno, ancora impugnabile); può ritenere di nessun effetto la legge 40 del 2004 nella parte in cui definisce l’embrione “soggetto di diritti” (“recenti e poco condivisibili formulazioni lessicali … improprietà anche terminologica del legislatore”), ma anche far intendere che nemmeno un eventuale esplicito riconoscimento della capacità giuridica del concepito, mediante la modifica dell’articolo 1 del codice civile, cambierebbe la sostanza della regolamentazione.

Non poteva mancare il riferimento alla sentenza Englaro, quando la Corte, in maniera estemporanea, richiama l’interesse a “non vivere una non-vita, condivisibilmente riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza n. 21748 del 2007”: adesione significativa, perché se, per uccidere Eluana Englaro, ella doveva essere ritenuta “sostanzialmente morta” (appunto, una non-vita), il feto viene definito (con una citazione errata, forse inconsapevole, della sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975 che diede il via alla depenalizzazione dell’aborto) “chi essere umano deve ancora diventare” (!).



Ma torniamo alla legge 194: è questa non-legge, questa legge profondamente ingiusta che sancisce la liceità dell’uccisione dell’innocente, anzi, il diritto alla sua uccisione, che permette questi risultati.



A questa legge non potremo mai rassegnarci.

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